venerdì 30 dicembre 2011

Natale, moglie mia non ti conosco



È bello il Natale visto da qua.
È così bello che non ci fai neanche caso da quanto è bello.
Intanto qui oggi entra l'estate. Indi fa un caldo che abbaia. Distonico un bel po' con l'immaginario Natale=neve. E francamente, a parte il fatto che è festività e quindi non si lavora, a questi qua del Natale, che poi equivale a shopping selvaggio, depressioni più o meno coatte e poco più -non avendo un becco di un quattrino e poca voglia di deprimere- importa sega.
Diciamolo, vedere un babbo natale imbacuccato in quei vestiti spessi e ridicoli e con quella barba che sembra una termocoperta nella vetrina di chicchessia non solo è un po' improbabile, ma finisce per metterti persino a disagio. Poromo, viene da pensare. Chissà che caldo che patisce!
All'equatore perdi il senso e il peso di cristianità della cosa. Che son chilometri di senso e tonnellate di cose. Dimentichi i retorici stasera cosa mi metto che non c'ho niente davanti a guardaroba infiniti per andare poi a messa a far finta d'impressionar del Vangelo.
Perdi il sulfureo richiamo dei jungles -almeno che non sei così scemo da star a cercare televisioni persino qua- che mirano a far abdicare le tue beghe emozionali e i tuoi sgoccioli di euro.
Ti sbarazzi in un niente di tutti quei Buone Feste e falsi auguri che a rotazione ci ricicliamo con abbozzi di sorrisi e magoni allo stomaco.
Puoi persino evitare il Pranzo. 'Nsate! (qua si mira alla cena, a pranzo fa troppo caldo per i nostri palati e sterni.).

Così, giusto per scrivere qualcosa e perchè penso che ci sia qualcosa da capire anche qui, vi racconterò come ho passato la vigilia a Malindi, tecnicamente il giorno clou di tutto l'ambaradan.
Premetto. Di solito in tutti questi anni passati qua ho vissuto queste pseudo-feste come giorni normalissimi da lasciar defluire e niente più. Per questo quando un italiano che vive qua fresco di appartamento a Malindi, appartamento a Mombasa, tre moto, auto e conti fluidi mi ha invitato a cena l'ho presa così così.
Ci saranno due bimbe fresche da Mombasa, sono andato io a sceglierle”, aggiunge al telefono convinto di corrompere tutto tondo i miei dubbi ed i miei ma strascicati.
Ripremetto. Stiamo parlando di un italiano sulla sessantina del nord faraone. Pieno di gruzzolo. Moglie in Italia con figlia ottenne. Lui qua a godersi le tasse evase, presumo. Malato di gnocca africana. Possibilmente non sopra i vent'anni. Uno di quelli che non spiccica una parola di inglese, che dice negri ogni tre minuti, ed è convinto di essere pure nel giusto.
Cmq, mi arrendo e accetto l'invito. E dovrò pure cucinare, ziocan.

L'appartamento è sul mare. In un complesso pieno di appartamenti tutti uguali. Le terrazze (molto usate all'equatore, chiaramente), si dirimpettano così vicine che vedi il companatico nei piatti dei tuo simili. Inutili le tende a tranciare quel senso di socialità trasformano il vento dell'oceano in sterili vele che sventolano come bandiere sconfitte.
140 metri quadrati: leaving room da sufficienza, terrazza di cui sopra, due camere con bagno, una cucinetta etta etta, piscina in comune, mare così così a due passi.
Il tutto per soli (?) 140.000 euro. Più 80 al mese di condomino. Più dopo scoprirai (come anche lui ha confessato) che il terreno non è il tuo e dopo 99 anni dovrai ripagare da capo tutta la trafila. Ma questo lo scoprirai a contratto stipulato, con calma e dispiacere.
Anche così noi italiani spezziamo le reni al Mondo intero, cari miei.
Andiamo avanti.

Arrivano le bimbe, finalmente.
Quella sua “ufficiale” ha 20 anni, l'altra 22.
Sorridendo mi ammicco pensando che mi tocca la vecchia.
Classiche gnocchette africane. Fisici di marmo e alte due metri. Accondiscendenti fino alla nausea ma palesemente maschera di gazzella su sguardi di tigre. Vestiti al minimo e tacchi 12. Un po' d'italiano buttato lì: “come stare belo?”, “tu piace me?”, stronzate così insomma, sguardi di valutazione al capitale immobiliare del pirla, e stupenza nello scoprire che parlo inglese e swahili, si può comunicare senza sembrare dei cerebrolesi, a volte.

Sessantenne già sgarella e assapora complimentando il mio sugo peperoni, zucchine grigliate e pomodorini freschi; poi, (in)spiegabilmente, chiede alle due bimbe di mettersi in costume da bagno, che lui porge dal suo carnet, costumi mini mini, veddo. Mi vergogno come un serial killer e scusazzo le bimbe in swahili, inglese, strogoto e telepatia rosso in viso tutto non per il caldo ma.
Rifletto.
Sono gli uomini o solo noi italiani in particolare ad avere ste fisime con le donne? (Io osservo. Almeno qua, siamo solo noi italiani. I tedeschi e gli altri, vanno per anagrafi più probabili e situazione molto meno grossolane).
Perchè più si invecchia e più le vogliamo giovani? (in questo caso c'è uno sbalzo di 40anni, per dire...). Non credo sia soltanto il brutto dire del “ciccia fresca”, c'è ben altro secondo me, poi chiedo al mio psichiatra (il fatto che sia lì dovrebbe dimostrare che anch'io, coscio o inconscio o furbetto, i miei “giochetti mentali da maschio in carriera” ce li ho e belli pregni. Quindi ammettere, passi lunghi e pedalare).

Mi chiamo fuori comunque da questo squallido gioco nel tempo di un battuto. Sarò cuoco, commensale educato e paziente, ma io in questa storia “non centro niente”. Niente nere, riconfermo convintissimo il giuramento di mesi fa.
Tra le righe del mio dire il messaggio arriva alle bimbe che recepiscono e rispettano. Lui invece viaggia di bicchieri di vino bianco, sterno italico in bella evidenza, capelli tinti di marrone testa di moro e mani che van tra le cosce delle gazzelle come mamba famelici. Cerca persino convinto di averla la mia complicità su battutacce da caserma. Razzistesessisteincredibilmente. Mette un po' in imbarazzo. Sono proprio cambiato cmq, 5 anni fa, non ci facevo così caso a tutte queste cose.

Finiamo la cena tra complimenti alla rinfusa e gomiti alzati e almeno il caffè lo faccio io.
Le bimbe si ritirano per cambiare i costumi da bagno in costumi da scena.
Si va allo Starts & Gaters, un disco-pub-ritrovo africano che strizza (parecchio) l'occhio al turista.
L'altra” si appiccica a me. Non perchè abbagliata dal mio charme claro, ma perchè qualcuno deve pagare l'entrata, una birretta e poi chissà se cambio idea, e quel qualcuno sono stato estratto io. (Si parla di qualche euro tra entrata e birra, niente de chè, cmq).
È pieno ma non pienissimo. Per essere poi altissima stagione, verrebbe da dire “mezzo vuoto”.
Al bancone cerco riparo tra bariste straconosciute che rassicurano tutto intorno giovani italiani/tedeschi/cinesi guardano dove il perizoma duole. Sessantenne abbozza uno sceike anni 60 con la stanga che lo sovrasta di bellezza e stile. Ok, per oggi può bastare.
Pago la birretta e sparisco. Scusate ma sono stanco. Vado a letto. Non ho mica vent'anni io! Aggiungo alle 22enne che ride come da protocollo bacetto, biz perso e allora vai a letto.
Ma lui non recepisce bene il mio perchè e inizia a sbandare la dialettica. Intona una tiritera alcolico/impastata a quattrocchi a proposito della spartizione. Vorrebbe addirittura che prendessi la bimba sulle ali del mio portafoglio. Forse il passo più lungo del viagra che ha fatto inizia a dare il fiatone.
Rimango nelle mie posizioni e saluto. Finendo un'amicizia appena sbocciata, presumo.

Ma invece, macchè!
È già domani mattina e mi telefona presto esto. Tra urla in sottofondo mi spiega in mezzo a congiuntivi impazziti e fiatone al cardiopalma che le bimbe fanno storie ma il suo inglese non permette nessun genere di comunicazione e la sua baldanza da felino in calore si sta sciogliendo davanti all'oggettività che traduce “idillio” in “Illusione” e un “battibecco autentico” con la “realtà”.
Stanno battendo cassa. Esigono l'obolo.
Eccoci al dunque.
Anche perchè lui invece pensava che ospitarle e offrirle da mangiare, due birre, scoparle e darle delle negre bastasse e c'era pure il resto. Ste 'ngrate!
Mi passa la 20enne che mi spiega le ragioni. Che son sempre le stesse:
Mi ha scopato tutta la notte. Voglio 5mila scellini. Il resto è complimentary”.
Mi ripassa ello che spiego l'antifona invano e mi ordina un perentorio “vieni qui tu”, come fosse il mio capo, che tocca corde non congeniali per una fattiva collaborazione.
Dovrei capire che è la paura a metterlo nella condizione di aggredire per difendersi e che se intervenissi forse tutto si placherebbe. Dico forse. Ma abito lontanissimo da lui. Poi dovrò vedere un film visto e rivisto che non mi interessa minimamente. Poi dovrei chiedermi troppe volte perchè sono qui. E poi, insomma....e poi oramai ho deciso!
Lascio perdere amicizia e buon gusto e stacco il telefono in faccia a chichessia.
Sono d'accordo che è sempre bello fare esperienze, ma di fare il pappone adesso non necessito esperienza. 'Rciò.

Non so come sia andata a finire. Non s'è fatto risentire.
Avrà pagato, di sicuro. Finisce sempre così x i “Rocco Siffredi tricolore”.
Chissà che cosa si credono poi alla fine. I soldi Tutto corrompono ma Niente comprano.
Perchè non riusciamo mai a capire veramente questo concetto qua?
Perchè in nome del sesso pregiudichiamo sempre tutto e dopo ci sentiamo più soli di prima?
Perchè preferiamo sforzarci di fare i giovanotti un paio di giorni ed abbiamo paura di essere noi stessi per tutta la vita? Ma sopratutto,perchè ambiamo ad essere infelici?
Mi avrà pure depennato dalla lista dei cucadores ed avrò perso un “nuovo” amico, pazienza.
Mi rimane da confermare un mio vecchio adagio: se sei in giro per il Mondo e vuoi stare tranquillo e dignitoso, evita accuratamente gli italiani o parsimoniare i tempi di compagnia.
È brutto dirlo ma alla fine è davvero così: lo stereotipo italiano=cafone, fanfarone, maleducato di malamaniera, tachionizzato dal berlusconismo non solo è vivo, ma purtroppo e per davvero combatte in mezzo a noi. E ci fa pure vedere i sorci verdi.








mercoledì 21 dicembre 2011

Dellamore



L'amore l'ho conosciuto l'altra mattina in zona Baobab. Ma non saprei dire l'ora precisa.
Ridete ridete, ma parlo serio come un pregiudicato.
Proprio in un barretto del lungomare dove puoi aggiudicarti a prezzi umani birre fredde e vedere l'oceano indiano come a toccarlo con la mano e illuderti di guardare il Mondo come visto da lontano. Una voba che se non la vedi non ci cvedi.
Un amore così istantivo che ci sareste cascati anche voi, care le mie zucche vuote.
Un amore che m'ha preso lo stomaco, il cuore, un po' di pancreas e l'augello tutto.
Un amore che non s'era mai visto in giro prima. Dicon l'augello prima di tutto.

(No ora apparte gli scherzi. Faccio il serio. Oh. Ma io sin dall'inizio l'ho sentito davvero che era “Lei”, da subito. Tutto l'apparato olistico mi si è aperto di magia. Ho visto le lucine e i paperini. Sono dimagrito dieci chili in due ore e guardavo come un ebete qualunque le stelle stellate. Un safari nel subconscio di gelato a palettate.
Poi quando mi ha detto che veniva da Oxford mi sono davvero innamorato come un baccalà.
Perchè di quelle di Oxford ci si innamora a prescindere. Chiedete in giro.
Comunque).

Lei bella come una medusa descritta da Barricco. Che poèsio plebeggiando: piatto ricco mi ci ficco. Bionda colorata di colpi di sole che all'equatore da del celebrale messo male. Magra un po' calata, vita sedentaria di giorno/di notte vita marmellata. Vestitino afro-fashion che da onore alle formette sinuosette che s'abbelliscono di seni piccoli ma i capezzoli gagliardi le chiappe ben calate -sempre rimmel nelle sguardo- sguardo sexy che maschera sexy occhiate. Borsa firmata nervosa sigaretta che di menta appesta tutto. Lei così bella che paro proprio brutto ma bello a posteriori.
Per favore, giudicatemi soltanto, se siete ben di fuori.
Ordunque anche in falsetto arrossisco il mio inglese straparlo roba e triparlo quantunquemente di un approccio senza aver pretese che invece si materializza sorriso di partenza, poi le che cambia sedia e abbozza riverenza.

Di mano che sensuale l'ambisce i suoi i canali, di giochi di parole pari solo agli ospedali.
Di sguardi che imbarazzano lei sfiora la mia mano.
C'è un vento menestrello e penso: chissà se mi da l'ano.
Poi improvvistamente mi chiede in un inglese inglesizzato se sono anche sposato. Amore ma ti sarà possibile che tanto io abbia osato. Ti aspetto da una vita. Dal giorno del Creato.
Abbocca come un panda e striscia la sua gamba nel mezzo ai miei calzoni, proprio dove il gps indica che s'addensan li coglioni. Orchè divento Zanza, divento un gigolò. La sdraio giù di panza, che aggiotto il dietro e il front. Vedreste poi che bello se mi tiene tra le grembi pari fossi il suo bambino. Da none nove e mezzo invece quando si esibisce di pompino.

Sudati orsì per tempo famo tutto in tempi larghi di parole sussurrate che prometton baggianate, di contorni e posizioni da far impallidir anche il Vossia, poi l'ultima posizione -la più porca- detta quella del Messia.
O amore che sussurro di futuri futuribili/Noi due x sempre insieme e mai indivisibili.
(E qui si capisce ortanto che i Ricchi & Poveri mi fanno una ricca sega. NDA)

(Aaah il sesso ragazzi. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, sennò ci s'amazzerebbe dalle seghe, pensa un po'. Il sesso le prime volte è bello sempre. Anche se vai con Wanna Marchi. Il sesso libera la mente. Ringiovanisce la pelle. Fa giorno dorato qualsiasi giorno di merda. E se sono quattro mesi che non inzuppi il biscotto, crea il cosiddetto alterco quantistico conosciuto con il nome di “svuotamento di coglioni” che da un senso alla fisica e benessere al fisico.
Il sesso è bello se è dolce, un po' violento e persino a badilate. Il sesso trasforma in amore qualsiasi parola sporcacciona. Il sesso è tutto l'amore che vorresti dare ma non ci riesci.
Il sesso fa bene agli uomini, le donne, ai prelati ed anche ai pesci).

S'abbuia il terzo giorno. No amore tutto intorno. Sparisce l'energia, scompare la magia. Rimangono parole, parole già rabbiose, sms a ripieno di inglese rancorose. Stupenzo e guardo il cielo, le stelle, i satelliti e le costellazioni. M'appare la Madonna nei panni della mia ex ed è persino nuda con le tette ben di fuori, concludo che l'amore destabilia e rompe pure lì coglioni.
Saluto l'inglesina. Ripongo nella borsa condom, frusta e vasellina. Mi avvio sul marciapiede. L'amore è già sparito, per fortuna è la passione che non cede.
E mentre son lì che vado abbarricato, ricordo in mezzo a pensieri un poco ostili, che ci sono domande/risposte che nascono x essere pesate come perle e invece noi le rottamiamo a cani e porci.
Tipo quella che dice: Amare/Vuol dire soltanto/Poco dolci.

domenica 11 dicembre 2011

Stecchini




Certe volte per fare la nostra “porca figura” ci arrampichiamo su specchi di sapone, intrecciamo concetti come efficaci cestini estetici ma improbabili, imboniamo con congetture spesso rubacchiate un po' in giro come un Pi Greco qualunque le platee e ci chiudiamo in silenzi studiati e “pieni di parole” e godiamo con merito narciso quando qualcuno complimenta la farina del nostro sacco.
Se nostro sacco è.
Io per esempio, sopratutto se si parla di Africa e in special modo del Kenya, ho notato che tendo a fare il saputello minimalista. Butto lì un bel parolone tra poesia e cinismo un po' smielato, faccio il vago finto modesto, mi giovo di un'auto celebrazione coercitiva e se vedo che l'interlocutore non recepisce, tendo pure a fare il permaloso. Ed è allora che di insensibilità sgambetto da dietro a piè pari.
Ma non sempre. Invero.

Fa quindi curioso e notizia da post che dopo viaggi, un libro, report, post in giro per il Kenya, una semplice battuta sugli STECCHINI ha fatto centro più di tanto lavoro sudato. O forse di tanto lavoro sudato questa considerazione ne è summa e conio. Chissà.
Pensa te. Gli stecchini. Ed io chissà che me pensavo!

Riepisodio senza censure una.
Siamo a mangiare un po' di gnama choma -(che sarebbe il nome della carne per i carnivorissimi kenioti)- con tre amiche vere e un ragazzo fresco da Nairobi cugino di una di loro che per i modi, l'educazione e l'acume mi impressiona per davvero.
Manzo, capretto, pollo, kaciumbari (insalata di pomodoro, cipolla e limone), sima (la polenta bianca locale, accompagna tutto), e un mare di chips affogate nel kechup.
Si sparlicchia del più e di tanto tra birre fredde che van come il pane, sigarette a tsunami e magna te che magno io a produzione industriale. Sorrisi sberleffi ovunque e quantanque. L'odore di brace che esteso s'espande. Scarpetta polenta finisce in goduria. Adesso la frutta: mango, papaya e qualche fetta d'anguria.
Si approprinquia così la fine della cena tra sparecchi sbandati, camerieri frittellosi,giri di birre a ripieno, sparlicchiate più mirate e definite, e stecchini che puliscono i denti di pezzetti di carne che INEVITABILMENTE ti si infilzano tra i detti e le gengi (la carne locale è un po', diciamo, duretta. Fino allo “strappo il pezzo” versione preistoria. Quindi un po' di roba là in mezzo ci rimane a forza).

Beato ravanello tra canini e molari che inizio come per magia a vedere.
E vedo con che ritualità usano lo stecchino. Con che gestualità fisiognomica. Vedo ed apprezzo la classe che oggettivia a bestia. La calma studiata, quasi meditativa, nel controllare il pezzo tolto con fare chirurgo da quei denti bianchissimi che inquadrano visi al carboncino.
E poi che ganzo. Se lo infilano tra i crespi capelli. A mò di cimelio. Di vezzo. in bella vista come una corona.
Ottenendo così due effetti collateranti:
il primo, il messaggio alla plebe è chiaro: strunz! io ho mangiato!
Il secondo: tutti ti guardano con più rispetto, se non invidia. E rimangono strunz.

Spiattello queste osservazioni anpassan sul tavolo dei pettegolezzi che tutti s'assilenziano e mi guardano stupenzi. Al che stupenzo anch'io ma vago e sbirulino.
"Queste cose un bianco non le dovrebbe notare."
Mi riprende invece di complimentare amica 2.
"Nel senso che è un osservazione fine. Hai ragione. Ma mette un po' a disagio perchè voi di solito non le vedete queste piccolezze."
Si riprende sul fil di educanza amica 1.
Cambia qualcosa nell'energia del tavolo fiorito di birre vuote che di magia imperplessa si riempiono sgualdrine. C'è un senso d'imbarazzo. Un disagio quasi sottile che sfiori come un niente.
Durerà tutta la sera. L'indomani s'acquieterà nel bagaglio della memoria lasciando una traccia onirica sul tessuto dell'inconscio collettivo che sa di barzelletta.
Guadagnerà due etti anche la mia reputazione, così potrò fare a meno di andare ad abbronzarmi per darmi un tono e rimanere cappuccino senza imbarazzi. E tutto farà finta di essere come prima.

Porca troia per davvero!
E tutto questo per gli stecchini.
C'ho scritto sopra chilometri di parole appassionate e appassite sull'Africa e poi mi prendo un bel 10 e un po' di merda per sta roba qua? M'addeludo tanto tanto ma circostanzio di sorriso olistico.
Mha. Saremo strani noi. Ma anche questi africani.
Credi a me che te lo dico io.
Mica scherzano mica.


lunedì 5 dicembre 2011

Della Lentezza



Ho affittato una moto.
Lo so. Ne hanno parlato al Tg della 7 e da Fazio e su Repubblica c'è stata una dotta diatriba sulla questione tra Saviano e Mughini che mi onora.
Ma non è di questo che volevo parlare.
Intanto erano almeno 25 anni che non guidavo una moto.
E infatti appena l'ho presa mi son detto: facciamoci un giro per strade secondarie prima, che ci prendiamo la mano.
Dimenticandomi alcune fondamentali accortezze tra le quali:
  1. le strade secondarie di Malindi sono tutte sterrate, piene di buche e sassi.
  2. C'è più traffico che su Lamu Road (che sarebbe la Main Street asfaltata e turistica).
  3. e decisivo, piove da giorni e ci sono fango e pozze di proporzioni bibliche.
Infatti sono caduto dentro una pozza dopo 5 minuti. M'è partita davanti e mi sono ritrovato immottato fino al busc del cul. Ma senza prognosi mediche fastidiose e piene di paroloni.
Per la cronaca.
E manco mi sono dato per vinto.
Ho tirato fuori il Vale che soddiace entro ognuno di noi e sono ancora qua a scrivervela.

Ieri, per esempio, mi sono fatto tutta la zona di Shella e Baobab (che sarebbe il lungo mare). Ho attraversato tutta la Casuarina fino alla capatina alle spiagge del Marin Park (che è fuori town un bel po'), sono arrivato fino alle macerie di Maweni e ho sfiorato di gomito Kisumundogo senza degnarlo di nota.
Praticamente ho girato tutta Malindi. In un paio d'ore. Quando a piedi (ed io cammino molto, sia chiaro), ci impiego due giorni.
Ma non è neanche di questo che volevo parlare.

Quello di cui volevo parlare è una conferma lucida come mentadent al mio vecchio adagio:
guardare non è uguale a vedere.

Provo a Spiegarmi.
Passata in due birre l'euforia del ritrovarmi da una parte all'altra della città in pochi minuti, mi sono accorto da subito che non ho visto un bel niente ma solo guardato un po' di tutto male, di sguincio e di straforo. Senza ricordare quasi nulla e quel poco sfarloccato e sbugiardabile in tempi brevi e netti.
Una foto sgualcita della bui bui che ammicca da sotto il burqa. Il flash del bambino con il secchio di uova sode. La polaroid del duka che vende marunghi. La mama che.
Ma quando camminavo e incontravo queste squarci di realtà li vedevo bene. Avevo tempo per capire se quella bui bui fosse sinuosa vergine o sinuosa zoccola. Che c'è poca differenza ma un pochetto sì. Se le interessavo o meno (se si girano due volte a guardarti è come dire: scopami).
Se quel bambino era della tribù Ghiriama o Luo. Se insieme all'uovo ti dava anche il sale e il pili pili. Se era contento o sfavato. Se il tipo dei marunghi era un assiduo drogatello o un bizman. Se aveva giro e quindi qualità. Vende pure acqua e sode?
Insomma i particolari. Quelli che SONO poi le cose che ci passano sotto il naso. Il contributo essenziale per creare un INSIEME e quindi del FARCI UN'IDEA.
Ecco. Farsi un'idea.
Con la moto (immaginatevi quindi con l'automobile...)ti fai un'idea falsata, frammentaria e quindi discutibile a priori.
Ma va anche detto che quando scendi dalla suddetta, almeno qua, tutto riassume i tempi lenti a me tanto cari.
Pensateci.
Se puoi vivere con tempi lenti, la tua giornata sarà piena di Tutto e quel tutto lo realizzerai con Niente. Cioè, sarà di Niente che riempirai quelle ore. Ma sarà un niente usufruibile, pensante, oserei quantistico. E sopratutto, un Niente a costo zero. Perfetto no?
Il capire se quel dohw è grande o medio, datato o di pacca, immaginare se ha solcato onde ambiziose o risacche scontate, occuperà del tempo, pensieri, neuroni.
E non costerà una cippa. Per esempio.
Quasi tutto quello che ci occupa la giornata media invece, almeno a noi occidentali, ha un costo: la benza, il ticket, la pinta, l'aperitivo, il week-end, le siga, il regalino per la bimba...

Così – e qui volevo arrivare- noi accettiamo uno stile di vita che ci impone di correre sempre, di spendere 20 per provare a trovare un lavoro che ci porterà 10, di sfiorarci non senza vederci, ma senza nemmeno guardarci, e se questo succede, di farlo in cagnesco e sfiduciati.
Sfrecciamo nelle città e nei paesi con i pensieri prigionieri di brutti pensieri compulsivi e manco ce ne accorgiamo. Ci rassegniamo ad una vita imposta da altri, che poi spesso sono quelli che “ci voglio più bene”.
Insomma, se ci va di lusso, viviamo una vita che neanche più sappiamo se è la nostra.
Ma continuiamo a correre. A essere frenetici. Ad arrabbiarci tra di noi per un parcheggio e a sentirci un po' a disagio se entriamo in un bar troppo di lusso. A fare i conti con i portafogli vuoti ma pronti a spendere tutto per un cazzo di I-Phone ultimo modello per far poi sapere agli amici di Facebook che “tizio/a si trova qua” (ma avete mai pensato che forse alla gente “non gliene frega un cazzo” di dove vi trovate?). Sbaglio?
Sia chiaro che io son messo peggio di chi legge a prescindere, non sermonium esto est. Ma le considerazioni non mi sembrano così “buttate là per fare il blogger”. Sono sincero, sbaglierò forse, ma così la sento e così la dico.

Quindi/comunque la moto la tengo per altri 15 giorni, poi la rendo indietro.
Preferisco camminare. Guardare il cielo. I disegni delle nuvole. L'odore del vento. Salutarmi con gli altri viandanti. Assaporare bene il sapore dello smog che respiro. Insomma, vivere con lentezza.

Non so se mi son fatto capire o se meglio ho dato un imput per elaborare “certi pensieri”.
Ma spero che capirete i miei deliri e ne giustificherete i limiti e lo stile.
In fondo una scusante ce l'ho: sono così impegnato a provare a vivere con lentezza quasi gratis, che ci sto prendendo sempre più gusto. E questo porta via un sacco di tempo e anche voglia di scrivere, per non dire capirsi.
Per fare questo in fondo basta non guardarsi ma vedersi.






mercoledì 30 novembre 2011

Africaneide




L'amica Sara M mi ha spedito un commento che mi ha fatto riflettere un bel po'.
Intanto ringrazio per i complimenti che fan tanto bene alla mia personcina tutta, ma quel “ho letto un pezzo rabbioso” mi ha fatto pensare. Perchè c'è del vero, molto.

È un pezzo scritto con rabbia poco rassegnata. Con un incazzatura che vuole vincere e non cerca rivincite. Con la consapevolezza di vedere e non guardare. Che poi fa tutta la differenza di chi scrive di cose che pensa e di chi scrive di cose che vive. Credo.

Sono tornato in Kenya più per necessità che per amore.
Qua riesco a vivere con 400 euro al mese facendo una vita semplice ma dignitosa.
In Italia ci pagherei l'affitto, il riscaldamento e morta lì.
Fa ridere pensare che si vive meglio da disoccupato all'equatore ma questo è.
Cmq. Appena arrivato (mancavo da due anni buoni) ho subito capito che aria tirava: se non sai muoverti prezzi di tutto alla follia, tutti oramai che (stra)parlano italiano e ti rispondono come Biscardi anche quando parli in swahili dignitoso. Tutti sempre più falsi, ladri, ipocriti, striscianti pronti solo a chiedere sigarette, birre, e dammi qualcosa muzungu. Tutti che ti guardano come una slot sforna soldi. Tutti senza la minima voglia di lavorare ma pronti a piagnistei infiniti sui poveri africani quando i vizzi che hanno (troppi e costosi) bussano alla porta dell'assuefazione.
Ed io ne ho coglioni pieni di sta gente qua.
Sopratutto dei mussulmani, di cui la costa keniota è piena se non monopolizzata.

Il turismo, sopratutto a Malindi, è praticamente finito. Adesso che siamo in alta stagione non c'è un cane. E quei due bischeri che ci sono li tengono chiusi dentro i resort come in un lager.
Tutti si chiedono chi sia il Colpevole.
C'è chi dice che è colpa della crisi. (Almeno x qua falso, qui è pieno di pensionati 55enni, tutti a far i giovanotti, da 2500 euro al mese che vivono alla grande in culo a me/voi che ci ciucciamo le conseguenze. C'è una base spaziale italiana (!!!!), un po' militare e un po' finta/privata, che ci costa una fortuna per niente e dove vengono mandati pseudo tecnici (tutti da Roma in giù, chiaro) a non fare un cazzo ma che prendono stipendi folli e girano con il Pajero e la troia nera. TUTTI!).
C'è chi da la colpa ai tour operator. (Una mezza verità. Ma capisco Franco Rosso o l'Alba tour se spostano i baricentri verso Zanzibar).
C'è chi da la colpa alle mezze stagioni. (capiteli, la maggior parte tira avanti a Viagra e doppi rhum).
Poi ci sono io che do la colpa solo ed esclusivamente agli africani di qui.
Dal capo della Polizia, a quello dell'Immigration fino all'ultima zoccola che chiede mille poi la mattina porta lo sciagurato in Polizia perchè vuole tremila. Il tutto in un Paese dove LA PROSTITUZIONE è illegale!!!!!!!!!!!!!!!.
Anni fa c'era un turismo fatto di gente che partiva con il ticket e poi si piazzava in town. Affittava camere. Mangiava per ristoranti. Frequentava locali. Insomma, smuoveva la vera economia locale.
Ma a questo turismo “così prezioso” è stato riservato un trattamento indegno. Problemi di tangenti all'aeroporto. Problemi di tangenti sulla spiaggia. Problemi di tangenti ovunque. Il beach boys che gli ruba i soldi del safari. L'arabo che gli ruba i soldi del documento “già pronto”. La puttana che ti ama tanto quando sei in Italia poi arrivi qua e ti fa arrestare senza sapere bene il motivo. Il.
Ci sono migliaia di storie così che potrei scriverci un'enciclopedia.
E cosa racconta secondo voi questa gente quando torna a casa?
Ma che bellezza è il Kenya? O ci sputerà sopra alla grande?
Questo target di gente, che poi era la vera linfa vitale del Kenya e in special modo di Malindi, è semplicemente sparita. Ha cambiato destinazione. Si è spostata in altri lidi. E quelli che facevano i trasferimenti per/da aeroporto, i safaristi, gli escursionisti, le puttane per bene, i ristoratori, gli artigiani e tutti gli altri si sono ritrovati un pugno di zanzare in mano.
E la colpa è solo degli africani, solo loro.
Della loro non voglia di guadagnare il pane onestamente, del loro razzismo strisciante che se li conosci smascheri ed evidenzi in un attimo, dell'indolenza del “dammi qualcosa”. Sempre e comunque.
Solo loro, punto.

Adesso va molto di moda il turismo sessuale di donne che vengono a cercare il rastone con grande cazzone. Parlo di donne sfatte, grasse, brutte, con qualche soldo ereditato ma più spesso di divorziate che hanno maciullato il tordo di turno; ma anche di giovani ragazze con il mito del Nero.
Una mia amica, che si vantava tanto di essere esperta dell'Africa da anni veniva qua a far “del bene” a scoparsi i neri. Poi ha trovato quello “diverso”, quello bravo, quello che non gli chiedeva i soldi, che la teneva in casa come una moglie. E così via a scopare senza preservativo sin dall'inizio.
Sono esperta, questo è diverso, mi raccontava davanti alle mie perplessità.
Poi un uccellino mi ha sussurrato all'orecchio: l'uomo della tua amica è malato.
Ed io l'ho sussurrato all'orecchio dell'amica esperta d'Africa.
È risultato che il rastone tanto bravo ha l'AIDS da un paio d'anni. L'ha sempre scopata senza condom e senza mai parlare dell'argomento. Risultato finale? L'amica è stata contagiata. I suoi valori sono già crollati. E per ringraziarmi mi ha quasi tolto il saluto. Ah, il tutto a 32 anni.
Ecco come si butta una vita nel cesso a fidarsi degli africani.

Quindi ha ragione Sara quando mi sente rabbioso, ma allo stesso modo è autentico lo strano tipo d'amore se incontro qualche anziano pulito di cuore e ci sto ore a parlare di tutto e del niente. Se mi fermo a mangiare un piatto di fagioli con poveri operai che mi guardano stralunati. Se ho deciso di fare un bel digiuno di sesso fino a nuovo ordine/rientro.
L'Africa è un Male che non si codifica.
E chi c'ha provato ha passato solo guai.
Io provo ancora a viverla. Rabbioso e pieno d'amore allo stesso tempo.
Poi ci saranno tempi più belli che stanno arrivando.
A quelli sto mirando. E a quelli arriverò.
L'Universo ama e protegge chi Lo ama.
E dato che oggi c'è un bel sole, me ne vado all'oceano.
È uno sporco lavoro lo so, ma qualcuno deve pure farlo.

Post
Sto notando con immenso piacere (il browser di prima non me li visualizzava) che c'è gente nuova che si sta iscrivendo tra i lettori fissi del mio blog. Ringrazio quindi lenew entry: cippalippa e artemisia, che avevo scambiato per la mia ex.





mercoledì 23 novembre 2011

L'uomo Della Spazzatura




Di vagabondi e straccioni Malindi – come tutta l'Africa e tutto il Mondo- è piena. In ogni dove. Si trascinano dentro stracci trisunti, con una borsaccia stasporca chiedendo elemosina, importunando, cantando nevrotici canzoni senza senso, con ogni probabilità in preda a chissà quale astruso delirio, mangiando terra, con ogni probabilità bevendo quel cazzo di Mnasi appena raccolgono qualche scellino. Sono persone senza dignità, persa spesso per brutte azioni che hanno caratterizzato il loro passato (molti sono pedofili che la società ha condannato ai suoi margini), guardano sempre in basso oppure fissando il niente. Non hanno nessun genere di dimora e dormono dove svengono, aspettando che la Morte li tolga da questo disagio.

Ma ce n'è uno che non è così.
A 300 metri da casa mia, sotto un olmo coperto di rifiuti, vive l'Uomo della Spazzatura.
L'ho battezzato io con questo nome. Mi sembrava dignitoso e lo è.
Ho chiesto in giro se qualcuno lo conosce o sa qualcosa.
Nessuno sa niente. O almeno così dicono. Ma non me lo dicono con il sorrisino cinico di chi gode nel vedere qualcuno nella merda più di lui. Che è un atteggiamento classico che ho riscontrato in Africa e in India.
Anzi. Di solito mi guardano interrogativi chiedendosi il perchè mi stia informando PROPRIO di lui. Quasi intimoriti.
C'è un segreto dietro quell'uomo che a me non è concesso.
E non credo che si tratti di qualcosa di terribile, affatto.
Con ogni probabilità è un segreto che imbarazza tutti e del quale tutti farebbero volentieri a meno.

Io lo incontro continuamente.
Di solito gira dove si buttano i rifiuti (per strada o dove capita), con un borsone nero che seleziona quello che gli serve: scatole di yogurt piene di formiche, bustine nere con rimasugli o briciole di samosas, pezzi di carta, bottiglie vuote e chissà che altro.Avrà 30 anni. I baffi tenuti bene. Un fisico asciutto ed uno sguardo dritto e fiero che non sfida niente ma che non teme nessuno.
A me mette in soggezione.
Ogni tanto compro un paio di cartoni di latte e glieli do se lo incontro in giro o se si trova seduto sotto il suo olmo. Lui li prende senza neanche guardarmi e men che meno ringraziare e continua a camminare a schiena nuda e dritta. Oppure a mangiare formiche che gli corrono tra le mani.
Non puzza.
Ne lui ne il posto dove vive.
Con ogni probabilità tutto quello che è biodegradabile lo mangia e quindi non c'è decomposto lì, e sono sicuro che ogni tanto si lava.
Non so dove ma sono sicuro che lo fa. Un africano medio dopo un giorno di questo caldo, credetemi, puzza da non stargli vicino. Credo che sia un po' perchè non si lavano e un po' il tipo di pelle.
Non riesco a fargli una foto.
Nel senso che ancora non c'ho provato.
Ho lo stesso timore che mi si scaraventi addosso o che non mi consideri minimamente. Ed in tutti e due i casi proverei lo stesso disagio.
Forse fotograferò l'olmo quando lui è in giro.
Mi mette in una soggezione strana, che quasi mi piace.
Sono stanco di tutti questi africani falsi e viscidi che ti fanno l'amico solo per scroccarti una sigaretta o meglio una birra. E di loro non ho assolutamente soggezione e non mi preoccupo se qualcuno pensa persino che sono un po' razzista. Non lo sono, ed il fatto che non sia disposto a farmi prendere per il culo dalla feccia di questo fantastico popolo ne è la prova. E quelli perbene lo sanno e mi apprezzano.

Ma pagherei per poter parlare con lui, per chiedergli cosa pensa della vita, per sapere che fine ha fatto la sua vita, per raccontargli se vuole dove cazzo sta andando la mia. Se ha dei sogni e se posso aiutarlo a realizzarli. Se lui può aiutarmi a realizzare i miei. Che forse è più probabile.
Ma per ora non si può. Ma non mi do per vinto.
Continuerò a comprargli qualche busta di latte aspettando che mi dica una parola. E forse un giorno succederà. O forse non succederà mai.
Ma per me sarà sempre un piacere strano e intraducibile incontrare l'Uomo della Spazzatura. Sarà bello illudermi che quando beve quel latte dimenticando per un attimo le formiche pensi: chissà chi cazzo è questo muzungu strano. E sono proprio felice nel credere che anche voi che leggete questo post siate positivamente incuriositi di conoscere l'Uomo della Spazzatura. Potrebbe valerne la pena.

Post

Gli ho fatto la foto. Di spalle. E ho provato disagio. Come giusto che sia.

sabato 19 novembre 2011

Lamu. 4 minuti di video rubati ai divieti e all'ipocrisia


http://www.megaupload.com/?d=T4A4DS01

Finalmente ce l'ho fatta a scaricarlo. Spero funzioni. Non è niente de chè ma sono sicuro che non esistono video girati nell'isola di Lamu Island da almeno dieci anni.

Charlie

Mi vergogno quasi a scriverlo solo oggi questo post.

Charlie l'ho conosciuto a Malindi nel 2006. Eravamo vicini di casa e si era fidanzato con una ragazza africana di nome Sarah, una delle prime persone con le quali sono diventato amico appena arrivai qua e forse fu lei che mi battezzò con il nome Karioki (che è un nome kikuyu, tribù alla quale appartiene).
Charlie amava bere. Troppo. Arrivava dagli USA troppo bianco, con un sogno africano stereotipato nella pieghe della mente e tante ombre nel cuore e nella risacca dei sentimenti, pensai d'acchito. Era buono, gentile, educato. Troppo per l'Africa. Troppo per questo cazzo di mondo con ogni probabilità.

Passavamo il tempo seduti sotto le palme del “Mabeste”, un barretto africano con prezzi giusti, e parlavano del vago. Mai di politica. Mai delle famiglie. Mai del passato. Da quello, quando ti ritrovi qua, con ogni probabilità stai scappando e ne fai volentieri a meno di parlare e ricordare.
All'inizio lo pensavo un po' coglione. Noi italiani purtroppo siamo fatti così. Pensiamo sempre di essere i più furbi, i più intelligenti, i più eclettici e quant'altro.
Meno male che la Storia ci sta facendo ricordare che in realtà siamo solo una razza di capre senza dignità, cultura e rispetto per se stessi e gli altri. Comunque.
Ricordo bene quando regalò l'anello di fidanzamento a Sarah.
Un gioiellino che ogni volta che litigavano ubriachi e fumati, volava nel prato del bar e poi toccava a noi carponi andare in giro a cercarlo. Tra risate e battutaccie.
L'abbiamo sempre ritrovato.

Poi io sono partito. Un po' di masochistico Casentino. Tanta Olanda. Poco South Africa. Charlie invece non si è mai mosso di qua. La famiglia, con ogni probabilità per non averlo tra i piedi, gli spediva mensilmente una diaria in dollari che gli permetteva di vivere bene. Se non avesse bevuto. Ma lui si beveva tutto ed eran sempre problemi. Mettiamoci poi tutti i parassiti africani che gli gravitavano intorno pronti a farsi pagare una bevuta quando l'alcool gli toglieva l'ultima lucidità ed il gioco era fatto.

Quando sono arrivato non l'ho incontrato ma sapevo che era qua. Viveva a Kwandomo con Sarah, un villaggio fuori Malindi che un tempo apprezzavo ma che in realtà è un posto Maledetto abitato da gente cattiva e Maledetta.
Un mese fa mi chiama una e mi dice: Mauri, ti do una brutta notizia, Charlie è morto.
Era vero. Charlie è morto. Dopo una notte passata a ubriacarsi per barracci di Kwandomo circondato da quelle zecche puzzolenti che si abbeveravano alle sue debolezze. È uscito sulla strada ed ha iniziato a camminare barcollando nel mezzo. Là la strada è buia. Non si vede niente. Infatti l'auto che l'ha centrato in pieno non l'ha neanche visto e men che meno frenato.
Mi hanno detto poi che il corpo era sfracellato.
L'hanno sotterrato in fretta e furia nel cimitero di quel villaggio dannato.
Quella notte Charlie festeggiava 32 anni.

mercoledì 9 novembre 2011

Di Lamu, delle fandonie giornalistiche e dell’ipocrisia mussulmana

Di Lamu e del Kenya e dei somali avrete letto o visto qualcosa di sicuro.
Fantastico l’articolo dell’”inviato”di Repubblica che scrive: “Kenya, la guerra nel paradiso”, infilando una dietro l’altra una serie di inesattezze e stronzate che la dicono lunga sulla condizione dell’informazione dello Stato delle Banane. Meglio ancora il TG3 che raccomanda di avvertire amici e parenti che sono in Kenya di scappare!!!
Così, dato che in Kenya ci sono, e che sono pure vicino alla Somalia ho deciso di andare via terra a Lamu, da solo. Che fa tanto avventuriero ma che poi invece alla fine….
Nel mio libro “Mad(e) In Kenya” ho già celebrato Lamu, stavolta non vado a celebrare niente, voglio smascherare e scrivere quello che NON si deve scrivere.
Salgo nel pullman della Tawakal, chair n. 7, prenotazione: mister Poulicio. Mai come qua ho visto storpiare il mio nome così tante volte.
Sono l’unico bianco chiaramente, e dopo poco tutti mi chiedono con discrezione chi sono, e perché vado a Lamu. Resto vago e nebuloso, in perfetto stile mussulmano.
Al primo Police check salgono due soldati armati di fucili Fal e si siedono al lato opposto del mio. Sono la nostra scorta. Uno si addormenta subito, l’altro resiste dieci minuti. E’ con questo genere di Rambi che dovremmo spezzare le reni ai somali! Ma va là ma va là!

Il viaggio sarà lunghissimo, la strada, quando è asfaltata, s’inebria di buche insidiosissime, ma dato che è quasi sempre sterrata, arriviamo dopo 7 ore (180 km!), e dico pure bravo all’autista, non fora mai, mentre lungo il viaggio, doppiamo tutti gli altri autobus delle altre linee che forano, rompono giunti semiassi e quant’altro. Anche se sembrano dei pazzi scatenati, sono convintissimo che i driver africani siano i più bravi del mondo! Parlo serio.

Già a Mokowe, dove finisce la Terra e si apre l’Oceano, capisco che aria tira. È piena di beach boys falsi, drogati e puzzolenti che si avvicinano con quei sorrisi schifosi a rompere le palle che se potessi e avessi una pistola, ne stendere subito una decina e poi mi farei una bella dormita.
Riparlo molto serio.
Nel pubblic boat mi siedo accanto ad un vecchio signore pulito, discreto e sorridente. Tira fuori il cellulare e fa partire della musica mussulmana guardandomi come a dire: visto? Anch’io c’ho il cell galattico. Parliamo un po’. Gli chiedo che aria tira. Scrolla la testa. Somali? Domando. Riscrolla la testa e mi fa un gesto muto in avanti. Indica due beach boys che spadroneggiano il dhow. Non avevo dubbi.
A Lamu Island me ne ritrovo intorno una decina che mi offrono la camera a prezzi scontati, l’escursione a prezzi scontati, qualsiasi tipo di droga a prezzi scontati. Rispondo in swahili stretto e diretto,la metà sparisce. So dove trovare una camera a prezzo basso (7euro), ma quando arrivo lì in quattro si presentano alla reception a chiedere la commissione. La padrona, Sabrinah, mi conosce e mi guarda come a dire, ma gliela devo dare? Chiudo la porta dell’hotel e le dico a voce alta di chiamare subito la Polizia. Spariscono tutti in due secondi. Adoro la gente con i coglioni, soprattutto quando ce l’hanno al posto del cervello.

M’incontro con Isac, un carissimo amico Kikuyu, un domatore di computer conosciuto a Malindi che per problemi di cuore si è trasferito a Lamu perdendo grandissime opportunità di lavoro.
Parleremo poco di questo, esce da un esaurimento nervoso e non domando niente, so che la moglie lo tradiva in lungo e largo e lui, persona per bene e intelligente, aveva optato per una resa dignitosa invece di far scorrere sangue come duopo in questi casi.
Di Lamu invece parliamo e molto, davanti a gustosissimi frullati di mango e samosas a modino.
“Mauricio, questi sono tutti una massa di vagabondi. Non vogliono lavorare, vogliono solo ubriacarsi, drogarsi e scopare ragazzine (sopra i 12 anni non c’è ragazzina vergine da queste parti, NDA). Loro con i somali ci vanno abbraccettati da sempre. Traffico d’armi, droga, omicidi e rapine. Da sempre”.
Concordo in pieno.
L’inglese ucciso nell’isola di Kywayuni era un bizman con grossissimi interessi di terreni in Lamu e isole vicine. Sicuramente a pestato i piedi a qualche Omari di Lamu, non certo ai somali, ma la scusa era buona e la spietatezza di certi mussulmani oramai è solo un dato storico. Come la storia della povera francese paraplegica morta (non uccisa) in mano “ai somali”.
Io l’ho conosciuta quando dirigevo il Lamu Palace sei anni fa.
Non era paraplegica (lo è diventata dopo un incidente stradale) e beveva come una spugna. Il padrone dell’albergo mi avvertì di trattarla bene quando veniva a scolare alcolici. Come di trattare bene un’altra Inglesina che faceva la Karen Blixen (che era notoriamente una puttanona alcolista), anche perché, e questo me lo sussurrò all’orecchio, erano due agenti della CIA. Era il segreto di Pulcinella, lo sapevano tutti.
Fa strano che nessuno ad oggi abbia scritto una parola di questo dato che invece mi sembra importante giornalisticamente, e decisivo a livello di indagini. No?

La sporcizia a Lamu è sempre stata una componente abituale. Ma adesso siamo arrivati a dei livelli da epidemia. Buttano tutto a mare, ma proprio tutto: cassette di legno, bottiglie vuote, plastica, avanzi di pesce
decomposto. E poi dieci metri più in là pescano. Questo è uno dei motivi per cui qua in tutta la mia vita non ho mai mangiato un pesce.
Riso, verdure e via a andare.

Isac mi lascia qualche ora: vorrei scopare mi dice. Con innocenza.
Gli africani son fatti così, se non scopano una volta al giorno sgarellano.
Lo saluto sorridendo e mi faccio due passi per la piccola town.
Lo “sentono” che non sono un turista ne uno di primo pelo. Mi siedo con loro indifferente. Pago tutto al suo prezzo senza chiedere e chi prova a fregare lo becco subito. Non induco a fissare le donne velate che qua sono bellissime perché è una grossissima mancanza di rispetto che può costare cara. Non mi schifo al passaggio dei somari di cui l’isola è piena. Non mi azzardo neanche a tirare fuori la macchina fotografica,che soprattutto di questi tempi può costare il linciaggio. Con ogni probabilità puzzerò un pochino anch’io come loro.

È sabato. E dato che non fanno un cazzo tutta la settimana, stasera festeggiano con marunghi (una droga illegale in tutto il mondo che in Kenya e Somalia invece è legale), erba e alcool a fiumi.
Per andare in moschea ne riparliamo domattina.
L’ipocrisia viene meglio con la luce.
Mi fa sorridere il pensiero che Lamu è vista come l’isola dell’ortodossia religiosa. Qua ogni anno alla fine di novembre si tiene un festival mussulmano tra i più importanti del mondo arabo, qua sono stati scritti testi sacri storici e fondamentali per la religione mussulmana.
E adesso invece è piena di frogi (c’è persino turismo sessuale europeo maschile da queste parti!), spacciatori di droga e gente che non è mai entrata in una moschea!
Alla sera vado con Isac alla canteen della Polizia. Un ottimo posto dove si mangia con un euro, si beve birra a prezzi giusti, si può giocare a biliardo o guardare il calcio inglese (seguitissimo in tutto il Kenya).
Qua beach boys non sono ammessi, e tutta la Lamu “normale” è qua che si ritrova. Giochiamo un po’ al pool e poi a letto, sono stanco ed ho già voglia di ripartire. I miei dubbi sono confermati: nessun problema con i somali, tutte chiacchiere per impressionare e far dimenticare per un attimo che il mondo sta precipitando in baratro senza fine, la “religione” che si sgretola sempre di più sotto il peso della sua stessa ipocrisia, e poca gente che ha voglia di sapere come stanno davvero le cose, perché, come scrisse Pessoa: “dove c’è molto sapere/c’è molto da temere”.

Al mattino compro il biglietto per rientrare con Isac che mi chiede di rimanere ancora. Non ho più voglia rispondo. Sono stanco.

Sono stanco del Mondo, delle stronzate che ci raccontano da una vita, dei telegiornali e dei burattinai e sono stanco di lavorare per sopravvivere.
Vorrei una bella rivoluzione mondiale dove scorrono ettolitri di sangue.
Vorrei sbudellare con le mie mani tutto il Parlamento Italiano. Uccidere con un machete Montezemolo e Marchionne. Vorrei evirare tutti gli iscritti alla CGIL. Vorrei bere il sangue della Santanchè e della Carlucci e della Finocchiaro. Vorrei sgozzare.

Ed invece mi ritrovo un’altra volta a Malindi con il tavolo pieno di birre vuote a fumare pacchetti su pacchetti di sigarette. Impotente e inutilmente incazzato.
Mi vengono in mente i miei genitori e milioni d’italiani ingenui e perbene come loro traditi e svuotati di tutto.
Devo prendere una decisione: rivoluzione o perdizione?
Per stasera facciamo perdizione và.
Per stasera basterà un bel pompino e un buon massaggio fatto come Dio comanda da una prostituta mussulmana di nome Fatuma, 19 anni freschi freschi, che si presenta a casa mia chiusa dentro un burqua e nuda sotto. Con tanto di leccata di palle e culo che ricorderò nel tempo. Imparano a sette anni a fare buona fellatio queste mussulmanine qua. Ce le mandano i loro bravi genitori a fare esperienza alla “scuola dello Zio”.
Il tutto mi costa mille scellini. Che equivalgono a 8 euro.
Spero solo che quel testa di cazzo di Allah abbia visto tutto.

post dell'11 novembre

giusto per confermare le mie teorie "estremiste".
Nel mio libro "Mad(e) In Kenya", il report su Lamu parlava molto di un beach boys con il quale ho lavorato molto, il suo nome è Kalifornia.
Quando sono stato su giorni fà ho chiesto se era in giro. Non c'era.
Oggi ho saputo il perchè. A Natale, il mio amico Kalifornia ha portato in giro 4 italiani ricchissimi che soggiornavano in Lamu presso uno degli alberghi più cari dell'isola. Alla sera gli hanno chiesto di trovare della cocaina (sembra che gli italiani senza un cazzo in culo e senza coca non vivano).
Ebbene, dopo il primo tiro uno è MORTO subito.
Ad oggi Kalifornia ha una taglia sulla testa di 2 MILIONI di scellini (che possono essere equiparati  a un milione d'euro) messa in palio dal proprietario dell'albergo.
Sembra che sia nascosto in Tanzania.

martedì 27 settembre 2011

Quando E' Tempo Di Ripartire (remixed)

postino: questo pezzo l'ho scritto 5 anni fà. Mi sembra ieri. E alla fine, parla di oggi.

Quando è tempo di ripartire te ne accorgi perché dalle montagne il vento annuncia il prologo di quello che saranno i prossimi mesi. Freddo e inverno e noia. E il cielo non dispensa più oro giallo ne tappeti di stelle ma nuvole anonime che passano veloci e distratte.
Quando è tempo di ripartire lo vedi nei visi dei colleghi di lavoro. L’ultimo giorno. Quando poi si stappa un Ferrari offerto dal boss e la tua teoria sul tenetevi pure la pensione integrativa si sveste di una presunta saccenza e diventa una semplice realtà. Si può fare. O almeno. Ci si può provare.
E le rate del nuovo fiammante tutto non sembrano più affatto comode ma anzi pesano come quei macigni che sono. E l’ultima stretta di mano più maschia e i sorrisi più sinceri. E il boss ti allunga un extra in euri e ti dice ci vediamo a maggio e fatti sentire. Mi raccomando. Quando è tempo di ripartire lo sai perché nel bagno di casa fioriscono ricambi Mc3 in ogni dove. È cuore di mamma. In Africa sono così cari e lui si rade solo con quelli. Quando è tempo di ripartire lo sai perché quello zaino sarà costato pure un sacco di mance ma adesso che lo vedi carico con i tuoi portafortuna a ciondolare è proprio figo. E poi scrolli la testa e ridi di te stesso e di cosa ancora riesci a pensare.Quando è tempo di ripartire te ne accorgi perché poi quando pesi il bagaglio per capire se sei sui 20 kg scopri che ogni anno fai tara di un paio e sei sicuro di aver preso tutto. Il regalo per tuo figlio. Occhialini da mare fotonici e scarpette antiscoglio. Per Akram. Per Garama. E per un sacco di altri bambinipreferiti. Ma avanzano chili. Bhò. Sarà l’età.
Quando è tempo di ripartire lo senti perché gli ultimi pasti a casa sanno di tutto. E poi mamma ti allunga dei soldi che gli ha dato babbo e ti dice però non dire niente a babbo e ti bacia. E poi babbo sulle scale ti saluta discreto e ti guarda fiero e sussurra un semplice occhi aperti.
Quando è tempo di ripartire lo leggi nelle mail che intasano il tuo box con quesiti sempre medesimi ma che smuovono il cuor. Negli sms pieni di slang swahili e promesse che vivranno un tempo compiuto. Nelle chiamate internazionali che razziano il tuo credito. Perché giù sanno che stai arrivando. E Sammy e Eve e Kajngu e Amina e Mohamed vogliono sapere. Quando parti. Quando arrivi. Dove dormi. E ci vediamo la sera ok? E poi ti promettono un tappeto di stuoie che srotolerà fino all’alba. E tu senti un fremito e lo stoppi perché non è ancora il momento.
Ma ci arriveremo a quell’alba.
Quando è tempo di ripartire è tempo di rassettare i cd sparsi per tutta la stanza. Staranno in colone placide ad aspettare l’anno prossimo. Che non mi hanno mai tradito una promessa. Loro. E finisci di copiare in scheda audio musica italiana che giù ascolterai e con gusto. Quando invece qua per Graziani e Parente non è che poi trovi tutto stò tempo. E ci infili dentro anche la discografia completa dei Tiro che ti è arrivata fresca fresca.
Quando è tempo di ripartire lo intuisci nel tempo dei momenti che iniziano a dilatarsi e a perdere il loro misterioso significato. E ti dimentichi di pranzo e di cena. Del giorno e della notte. E fai solo cosa ti va. E ti senti meglio. Leggero. E far due passi al fiume non ha più niente di patetico ma anzi colori. E momenti. E immagini. E suoni che ti piaceranno eccome. E uscire una sera non saprà di serata uguale alle altre ma di ritagli di piazza. Di due chiacchiere. Di cosa ti offro da bere. Di sorrisi e saluti. Di amicizie forse sottovalutate e rispetto inatteso e gradito. Ma anche sguardi piena di invidia e vibrazioni antipatiche che graffiano senza lasciare giustificazioni.
Quando è tempo di ripartire lo senti perché stavolta c’era anche una lei. E che stavolta era pure una muzungu. Dopo anni. Ma poi scopri che il suo interesse da sanguisuga con le ali da farfalla e la logica da perizoma serviva solo per trovare una chance.
Per scappare dall’ennesima gabbia dorata dove le donne amano infilarsi per scoprire poi che la vita vera è ben altro che la firma congiunta nei conti correnti.
E allora ti allontani con discorsi fatti in punta di piedi. E se non basta fai la voce grossa intonando giudizi e aprendo baratri che non si potranno più colmare. E poi torni tranquillo a fissare avanti e a far la sentinella tutta d’un pezzo al tuo vascello immaginario.
Quando è tempo di ripartire è scritto sulle ultime parole che lasciano segni sparsi in anonimi file che usciranno dal torpore poi. Frasi scritte a singhiozzo che  cercheranno una loro collocazione nelle spiagge africane. Quando il vento dell’oceano ti riempie gli occhi di sabbia e la tua immaginazione fermenta e scrivi veloce perché la batteria è lì lì per dirti by.
Quando è tempo di ripartire è chiaro perché è l’ora di fare due conti con te stesso. Perché quando si parte è un pò come resettare tutto. E allora pensi ed elabori e tiri conclusioni che poi saranno completamente diverse e inaspettate. Perché il timone della vita difficilmente è governato dalle nostre mani. Troppo spesso legate alla catena come i cani. E  allora ti fermi un attimo e scrolli la testa e tiri su lo zaino e dici. Vabbuò. Poi
vedremo. E parti e basta.
Quando è tempo di ripartire è un brivido che non razionalizzi. E l’emozione e la paura e l’eccitazione creano un cocktail che non trova valutazioni nell’ordinarietà del quotidiano. E quelli che erano problemi veri o presunti sfuocano davanti alla meraviglia della vita e ai suoi misteri. E le tasse da pagare o il timbro sul documento e le autorità le vedi solo per quello che realmente sono. Marionette o dotte giustificazioni per farci vivere vite dettate da gente che proprio non sa cos’è l’onore. E della cui vita noi e solo noi abbiamo l’incombenza e il sacrificio di saldarne l’onere.
Quando è tempo di ripartire è il tempo di spolverare i tuoi santini da viaggio. La foto di nonno.
Il sacchetto magico che lo sciamano Monitonquat ti insegnò a preparare. Quel testo di Sai Baba così caro. Le follie di Osho. E la collana che Fatuma ti regalò prima di morire torna a battere ritmici tintinnii sul tuo petto/cuore stanco.
Quando è tempo di ripartire lo capisci perché sei al terminal C di Fiumicino. E ritiri il biglietto al banco dell’agenzia taldeitali e ti guardi attorno e vetrate alte e colori bianchi e odore di detergente d’aeroporto. Due sbirri sovrappeso. Poca gente e pochi turisti. Uomini d’affari. Arabi arraffisti con le mogli che esibiscono i pacchetti e Gucci e Fendi e Prada. Come richiede espressamente il Corano.
Africani facoltosi con gli abiti della tradizione e anelli d’oro pesante alle dita. Qualche unno appoggiato al bar con la media rossa. E poi magari incontri qualcuno che conosci e ti abbracci e bevi insieme un caffé mentre l’atmosfera bignè dell’aeroporto ti fa da spolverino. E ignori i negozi duty free con le loro vetrine piene di tutto che ti puntano come dei vampiri. E poi ti imbarchi e noti che l’aeromobile è mezzo vuoto e ti
sistemi centrale e ti prepari un comodo letto sui tre seggiolini mentre l’hostess guarda che gnocca ti dice. Scusi. Ma lei si deve sedere e allacciare le cinture. Stiamo per decollare. E tu ricomponendoti rispondi si si. E poi quando l’aereo rulla in pista tu già dormi e ciao cinture.
Quando è tempo di ripartire lo vedi sopra i cieli di Mombasa. Che da quassù è proprio bella e vedi bene l’isola e i quattro ponti di collegamento e cavolo quanto verde che c’è. Da quassù.
Quando è tempo di ripartire lo senti all’uscita dell’aeroporto. Quando un fantasma d’umidità t’incatena e vedi i turisti fare le gambe molli. E i colori evaporano africani nell’incombenza della temperatura equatoriale. E c’è sempre qualche fratello di Malindi che li aspetta e ti vede e ti sorride e ti abbraccia e ti offre da bere mentre qualche tassista chiede in giro chi sei. E qualcuno gli dirà pure che sei uno di loro. Guarda là. Lo conoscono tutti.
Quando è tempo di ripartire l’auto sgangherata viaggia nello sconquasso della Mombasa-Malindi.
Dove meravigliosi pazzi scatenati sfrecciano annunciati dagli assolo dei clacsons. Dallo stridio dei freni e dalle imprecazioni recitate a bocca piena. E Yuma si unisce al coro stonato e irripetibile e tu continui a sorridere. E lui stupisce perché non hai paura. Stai a vedere perché sei consapevole che un giorno dovrai pure morire. E allora se deve succedere che succeda proprio qua. Ora. Non sarebbe affatto male. Anzi.
Quando è tempo di ripartire è chiaro perché la tua camera è pronta quando arrivi. E vengono tutti a salutare.
Quest’anno poi che hai deciso di vivere a Kwuandomo. Il quartiere dimenticato. E i sorrisi e gli abbracci sanno di sincerità e di quanto ci sei mancato Karioki. E Sammy che ti saluta rasta e ti indica butta lì i bagagli e vieni con me. E poi con Sammy a brindar a tutta Malindi. Con quei sorrisi che si stampano su immagini al carboncino. E poi risate larghe e moneta stappata che non offre via di scampo a questa meravigliosa giornata.
Quando è tempo di ripartire lo intuisci davvero dopo qualche giorno. Quando ti accorgi che non c’è più la televisione e tutti i suoi pupazzi a cercar di condizionare la tua vita. Quando quantifichi in soldoni il tempo che noi italiani sprechiamo inutilmente davanti a un elettrodomestico che oramai sfida il potere degli Dei. E ti meravigli a pensare di come invece sarebbe semplice e produttivo smettere di ascoltare tutte le fandonie
che ci vorrebbero far credere. E che molti di quei politici che strabordano da quello schermo. Barricati in un Circo Parlamento. Invece di legiferare. Dovrebbero passare un bel po’ di tempo in galera. Al posto spesso di sciagurati a cui il gioco delle tre carte della vita ha sempre dato buca. Spesso barando.
E giù all’oceano. Davanti a quelle onde imperiose. In piedi. Arrivi persino ad immaginarti un popolo che da inerme e inebetito ritorna padrone della sua vita fiero e divertito. E sorridi gustando l’effetto che farebbe se all’unisono si alzassero in piedi e li mandassero tutti a quel paese. Berlusconi. Bersani. Bossi. Provera. D’Alema. Corona. Moggi. La Santanchè. Pupo, Amadeus, quel fattone del Lapo e pure Flavia Vento.
E arrivi persino a visualizzare la faccia che farebbero se la televisione la spengessero tutti per davvero. Quando arriva l’ora dove quei due idioti sbagliano per l’ennesima volta le previsioni del tempo.

martedì 20 settembre 2011

Dell'Oceano



L'oceano è poesia. Parole in rima. In simmetrica logica.

L'oceano è l'immensità che ti misura. Il potere della natura davanti a chi il potere si illude solo d'averlo. La forza che annichilisce quando ricorda chi comanda per davvero.

L'oceano non è guardare. L'oceano è vedere.
L'oceano è i suoi rumori d'ascolto. Il pop morbido del frangersi della battigia. Rassicurante e superficiale. I rumori di quando lo navighi. Mentre la prua affetta onde di gelatina come un sound in levare di un dub essenziale. I fragori di quando lo cavalchi. Le svisate di lato su sezioni di onde viste troppo tardi che sconquassano come una batteria lanciata in un assolo intuitivo che produce stille di sudore.

L'oceano è il corpo che cambia. Il desiderio di vederlo cambiato.
Quando più Elementi si accalcano a trasformarlo in qualcosa che diverrà poi. Ma solo se lo merita.
Se esiste sul serio uno spazio di mutamento.
Perchè l'oceano è un orchestrale rigoroso. Un cinico broker senza tempo per i sentimenti. Un nonno burbero che bofonchia sempre. Ma quando sa amare non c'è cosa al mondo.
Per questo grandi personaggi hanno perso la testa per l'oceano.

L'oceano è il nontempo. Qualcosa che sopravviverà a tutto.
Se il mondo un giorno finirà. Rimarrà solo l'oceano.
Qualcosa che anche gli dei e i demoni non possono toccare.
Una roba troppo grande.

L'oceano è quando sei seduto davanti ad osservarne i movimenti.
Geometrie liquide. Essenziali. E perdi la forma umana e fili liscio su quelle onde da fermo.
Parto della sua generosità. L'oceano è quando ci scivoli dentro. Scavalcando onde consapevoli del proprio ruolo. E senti la forza delle stesse che ti tirano indietro. Verso l'oceano.
L'oceano è la voglia di sparire. Di perdersi per sempre in quello che ti avvolge come il Tutto. Sballottato nelle sue placente. Come un neonato partorito ancora una volta e trasformato in un uomo di nulla. Che uomo autentico vuole divenire.

L'oceano è la Vita. Il sale. Il pescato.
I relitti di barche perse in improvvisazioni che non hanno trovato tregua.
L'oceano non concede pietà. La distribuisce. Con eccentrica parsimonia.

L'oceano è di qua o di là.
Dipende.
Quando lo solchi fisicamente su fuscelli di legno di palma. Percependo al ventre come una fibrillazione il brontolio della sua forza in profondità. O in sicure imbarcazioni attendendo l'onda che ti farà tremare quando ti spingi troppo in là. Perchè sai che arriverà.
Alla maniera di un pittore che inquadra soddisfatto il ritaglio di una tela.
O quando lo solchi con la fantasia seduto sulla battigia mentre il tramonto inizia il suo breve show cavalcando onde efferate piene d'avventure.
Dipende.

L'oceano è l'astratto che si qualifica. Si fa sfiorare.
Che ti rende partecipe di qualcosa dal quale invece vuoi solo scappare.
L'oceano non concede sciocchi confessionali. Concede una possibilità.

L'oceano è l'urlo strozzato di voci che si rincorrono sulle schiume delle onde.
Di soavi melodie che hanno partorito le sirene. Imprigionando i sogni di chi davanti all'Immensità ha ceduto. Di marinai che l'hanno amato sino all'ultima parola prima di scendere in profondità.
Di naufraghi che hanno solcato tempeste e destini. Illusioni e dolori. Talvolta remunerati di una ricompensa. Più volte spariti per empre. Come innocui pesci rossi in una vasca troppo avara per concede altre albe.



                                              L'oceano è la vista in prospettiva
                                               l'esteso che si esprime in sezioni
                                 il battere del cuore che scandisce i ritmi dell'universo
                                                                 all'unisono
                                          lo smanettare innocente di un neonato
                                                  lo sbuffo di misteriosi pesci
                                                           abissi inviolati...
                                              ...guardiani del proprio Tempo
                                               pensieri senza sosta e soluzioni
                                                           silenzi rivelatori
                                                spazi lindi ancorati all'Anima
                                       concetti carichi di penombre che si perdono
                                                                    labili
                                          negli angoli più oscuri dei miei pensieri
                                                             fino al confine
                                                                opinabile
                                                           dei miei ricordi.

lunedì 5 settembre 2011

Dalla Cina con amore

"Semina pensieri e mieterai azioni, semina azioni e mieterai abitudini, semina abitudini e mieterai un destino."

domenica 27 febbraio 2011

Amami

broken heart


Il quindicenne Duccio se l’era tolto da sei mesi quel generazionale cruccio. Una notte che sotto le coperte si scoprì ad immaginare in tutt’altra maniera quella diavolina dell’Aurora. Che poi consisteva nel comprendere e passar dallo spararsi un sacco/qualcosa tipo seghe direttamente. Finito pischello precoce al liceo scientifico. A spararsi un sacco qualcosa tipo/emancipazione che certi analisti trasformano di concetto in una più dotta masturbazione.
Perplesso Duccio quasi auto inquisito dall’amplificare immagini fantasticate che poi rischiavan di finire dentro una stereotipata/telenovela/finzione. Duccio che si toccava curioso e con (poca) convinzione. Ma piaceva alle bimbe che avevano superato da mò il trauma delle mestruazioni ed eran adesso preoccupate a scovare reggiseni sexy e sexy perizomi. E l’avevan capito anche gli amici che invidiosi l’apostrofavano il piacione. A dire il vero senza voler infliggere una qualche umiliazione. Anzi con punte di gelosia se non d’ammirazione. Duccio meditabondo e confuso sul fatuo concetto dell’amore. Che ci imbastiva sopra sempre un sacco di confusione. Poi Duccio innamorato d’amor di sensazione spintonata via incombente dal carnale della nipote pensieri fini e zinne dritte del priore. Piccolo Duccio con le Nike ultimo grido ed un sorriso neutro e non definito. Giovane Duccio che non ci credeva per niente in questi stereotipi da giusto e figo. Microfibra di marca e via tutti in barca. Smarrito Duccio che aveva individuato da tempo senza neanche saperlo dov’era la magagna preciso. Cucciolo confuso Narciso.

Me li hai scaricati quegli mp3? La domanda dell’Aurora non lo colse impreparato. Casomai furono quel rossetto rosso fuoco e le labbra che muoveva come nei telefilm quando le bimbe spediscono direttamente nei pazzi i ragazzi a mandarlo un attimo in uno stand by che necessitava un resettaggio. Perché lui era già li che. Cioè. Ma se gli salto addosso succede davvero un casino? Si domandò scoprendosi solo in mezzo a tutti quegli studenti.
Duccio ci impiegò venti secondi a tornare in sé mentre l’Aurora infieriva consapevole dell’effetto suscitato. Allora? Me li hai scaricati o ti sei spadellato a sorbirti il GF? Gli piaceva di fare l’alternativa anche se barava. Lo guardava pure lei il GF e sparava giudizi spinti e mordaci davanti alle immagini di quei sei cerebrolesi. Che si credeva di far arrabbiare suo zio Don Paolo ma si sbagliava.
Te li ho scaricati eccoli. E gli allungò una pen drive con l’occorrente che a lui non era piaciuto per niente. Anastacia e Cremonini e Dolcenera e. Udite udite. Thak That.
Perché mi guardi così? Lo provocò accendendosi (addirittura!) una sigaretta.
Perché come ti guardo? Imbarazzò arrossito il povero Narciso.
Come uno che vorrebbe mangiarmi. Concluse lei stringendo quelle labbra rossetto rosso fuoco e chiamò l’amica del cuore per entrare insieme abbraccettate a fare al liceo un onore. Finendola con uno sguardo/sorriso girandosi malizia/obliqua mentre scodinzolava dal portone che Duccio si sentì tutti gli occhi addosso e un peso nello stomaco diagnostica di coglione.
Se in quel momento avesse avuto Cremonini tra le mani. Anche se non c’entrava una mazza. L’avrebbe strangolato.

Dopo essersi dedicato per mezzo pomeriggio a quel problema matematico che gli aveva fuso mezzo cervello per il mitico Duccio andar in chiesa a confessarsi da Don Paolo non solo sembrò cosa buona e giusta. Ma un escamotage accettabile per mollare lì quel libro uggioso e francamente inutile. Ma a cosa servirà poi la radice quadrata? A cosa? Si chiedeva neutrale ma non banale.
Si inginocchiò sul legno consumato del confessionale per ultimo. Dopo esser stato immobile a testa in su ad osservare rispettoso quel povero Cristo che l’avevano inchiodato lì per colpa nostra. Fece sfollare prima le vecchiette che quotidianamente si presentavano (ma cosa combineranno per venirsi tutti i giorni a confessare? Si domandava tra sé Duccio) e la moglie del farmacista. Che da quando aveva iniziato una focosa relazione con il sindaco. Religiosa com’era ma in preda alla passione. Si precipitava tutti i giorni a raccontar a Don Paolo le sue tresche d’amore con tanto di dettagli che il poveretto se la sognava anche la notte. E certamente non vestita come un angelo.

Don Paolo ho peccato. Mi son di nuovo toccato. Gli venne di dire così più per un senso di familiarità con la situazione che per la sua religiosa solennità.
Pensa te che novità. Ci fai pure le rime adesso? Don Paolo conosceva bene i galletti del suo gregge.
Cosa ci posso fare? È più forte di me. Mi prende tutta una roba. Don Paolo che devo fare. Pregare?
Forse sarebbe l’ora che ti dichiarassi a questa benedetta ragazza. Aveva fame Don Paolo e dopo la moglie del farmacista ci stava sempre bene tirar giù un bicchierino di vin santo che smorzava i languidi pensieri e portò il povero Duccio diretto sul pezzo per fare alla svelta. Di lui e sua nipote aveva intuito tutto da tempo. Bastava osservare come la guardava furtiva e di come lei ci giocava sopra ma attenta affinché la bava del povero giovanotto scorresse incessante.
E come fa a sapere che sono innamorato? Sbiancò poi arrossendo il fragrante Narciso.
Ho qualche anno più di te. Rispose Don Paolo stampando in quel viso di prete un prete di sorriso.
Dice che dovrei davvero dirglielo?
Si. Provaci e fammi sapere.

La ringrazio. Quante Ave Marie?
Lascia perdere e studia piuttosto.
Sembrava a leggerlo così fuori dagli schemi. Ma era solo perché si rifiutava di trattare i ragazzi come piccoli scemi.

Don Paolo aveva accolto la vocazione dopo un percorso onusto ed astruso. Giovane inquieto e di famiglia buona iniziò presto a porsi le domande giuste nel posto sbagliato. Figlio/Prodotto di un’Italietta anni ottanta che sarebbe crollata sotto il peso della Storia e di ritorno da un lungo e misterioso viaggio in India ed un soggiorno nell’Africa francofona del Senegal dove rimase folgorato dall’incontro con due missionari italiani che si dedicavano -con una dignità ed una forza d’animo che lo impressionarono- ad aiutare “gli ultimi della filiera” che erano stati abbandonati da tutti gli Dei e che loro. Con quel piccolo/immane gesto e pieni di una fede che non riscuoteva aggettivi avevano riportato sul luogo del misfatto. Annunciò ai parenti/amici basiti la sua intensione di diventar Francescano. Così. Dopo un pranzo di bentornato che spiazzò la famiglia e gli amici e persino il democristiano Alfonso di lui cognato.
E ce la mise tutta Don Paolo nouvelle talato. Divorò Antico e Nuovo Testamento senza dar cenni di cedimento. Ascoltò attento le disquisizioni di vescovi e cardinali e in tutta quella retorica retribuita mai li giudicò banali. Ogni tanto incontrava religiosi che lo incoraggiavano con dubbi/certezze originali. Più spesso/purtroppo burocrati della fede con un odio represso che odoravan di infelicità e presagio di guai.
Don Paolo che dai cylum indiani era derapato verso il Concilio Di Trento e a giustificare persino le monache chiuse dentro un convento. E pareva pure contento! Lo dicevan tutti. Per prima sua madre che all’inizio era pure preoccupata ma poi si rilassò ed andò di messe e comunioni con una solerzia che la misero voce fissa nel capitolo spese e porta bandiera nelle processioni.

Poi Don Paolo con i problemi di una parrocchia alla deriva e le funzioni e i buoni rapporti con il Monsignore. Poi le sue omelie che. A differenza di quelle di certi preti di chiara fama che sembran diretti da Scorsese. Andavano di semplici parole per un auditorio con poche pretese.
Poi Don Paolo che arrivò all’appuntamento con quel giorno schiacciato da un ritmo omologato che si chiedeva se mollare tutto può esser davvero Il Peccato. Dall’onore e la fede tormentato.

Quel giorno non lo sapeva ancora. Ma tre mesi dopo incontrò Angela. Una ragazza madre che arrivava marchiata appestata da sud di Gomorra. Non furono i suoi occhi scuri di cui non vedevi il confine a farlo abdicare no. E neanche quelle labbra siciliane che smuovevano l’ormone. Men che meno. Anche se lo apprezzavano tutti. Quel fondo schiena ritto e asciutto che strappava quartine in rima. Con ogni probabilità furono la sua dolcezza o forse chissà la sua paura a scioglierlo.
E quando restituito l’abito si sposarono sereni. Da come l’amò. Per primo lui e nessuno dopo si ricordò che Concettina non era sua figlia. E decenni più tardi al suo funerale fu ricordato in uno struggente commiato proprio da lei davanti ad una folla commossa portato ad esempio per l’intera comunità che lo omaggiò nei lustri.

Duccio la sua decisione l’aveva presa davanti a quei trenta euro. Più i dieci che gli avrebbe allungato la nonna bastavano. Con quei soldi avrebbe invitato l’Aurora a mangiare una pizza cometipare e pagare pure lui. E poi avrebbe indossato quella maglietta della Nike che aspettava la grande occasione. Poi si sarebbe spruzzato del profumo mignon D&G che fai sempre un figurone. E come nelle commedie americane si sarebbe ingelatinato i capelli scuri e messo anche il collirio. Perché l’occhio bianco fa occhio d’adone.
E infilando le sue giovani speranze nello zainetto nero s’incamminò verso il liceo.

Pamy guarda che in barca con il Giacomo ci andiamo sicure per mille! L’Aurora era eccitatissima quella mattina. Il signorino Giacomo l’aveva invita a Castiglioncello per un week end VIP. E porta chi vuoi. Aveva aggiunto spippolando lo Smart. La Pamela al contrario. Più ruspante. Non si sentiva così attizzata all’idea. Il Giacomo era davvero ricco questo sì. Ma lui e i suoi pari amici eran delle gran pippe diciamolo. Boriosi. Irrispettosi. E così infantili nella loro superficialità che alla fine la indisponevano. E poi Duccio? Come la prenderà? C’hai pensato Aurora? Le chiese. Ma l’Aurora stava viaggiando già con il vento in poppa e non sentiva più.
Avrebbe capito vent’anni dopo quello sbaglio sbarazzino. Quando separata e con un figlio sulla groppa si mise a ricercar Duccio come lo ricordava da ragazzino. Senza neanche immaginare che l’uomo Duccio di lei ricordava davvero pochino. E infatti fu un’incontro che durò un’illusione di cerino.

Arrivato al liceo Duccio la cercò cacciatore tra lo svolazzare di tutte quelle teste che più d’essere a scuola pareva di ritrovarsi in mezzo ad un mercato. Duccio impacciato a priori ma dentro fortemente determinato. Se solo avesse immaginato il commiato!
Quando la vide di spalle con l’amica del cuore si avvicinò e la tirò da parte ripetendo la frase nella sua mente oramai conosciuta a memoria. Ma quando glielo chiese. Senti un po’ che storia! L’Aurora lo allontanò senza neanche saper bene il perché con fare da regina che la plebe aveva indisposto. Duccio pietrificò ma non cambiò espressione e rimase composto.
Poi con calma studiata tornò verso casa e quando si sprangò nella sua camera sentì qualcosa dentro che non riusciva a tradurre. Chiuso gli occhi e si concentrò. E fu allora che capì che aveva incassato la prima umiliazione della sua vita.
Ma non la prese male. Anzi. Si sedette un attimo guardando fuori il paese che gli scorreva abbioccato sotto gli occhi e aprendo il file bianco del suo piccolo PC scrisse suggerita dal fondo dello stomaco la prima quartina della sua vita tutta d’un fiato:


Amor che tutto prende
Amor solo donato
Amor che tutto vuole
Amor solo sognato