domenica 27 febbraio 2011

Amami

broken heart


Il quindicenne Duccio se l’era tolto da sei mesi quel generazionale cruccio. Una notte che sotto le coperte si scoprì ad immaginare in tutt’altra maniera quella diavolina dell’Aurora. Che poi consisteva nel comprendere e passar dallo spararsi un sacco/qualcosa tipo seghe direttamente. Finito pischello precoce al liceo scientifico. A spararsi un sacco qualcosa tipo/emancipazione che certi analisti trasformano di concetto in una più dotta masturbazione.
Perplesso Duccio quasi auto inquisito dall’amplificare immagini fantasticate che poi rischiavan di finire dentro una stereotipata/telenovela/finzione. Duccio che si toccava curioso e con (poca) convinzione. Ma piaceva alle bimbe che avevano superato da mò il trauma delle mestruazioni ed eran adesso preoccupate a scovare reggiseni sexy e sexy perizomi. E l’avevan capito anche gli amici che invidiosi l’apostrofavano il piacione. A dire il vero senza voler infliggere una qualche umiliazione. Anzi con punte di gelosia se non d’ammirazione. Duccio meditabondo e confuso sul fatuo concetto dell’amore. Che ci imbastiva sopra sempre un sacco di confusione. Poi Duccio innamorato d’amor di sensazione spintonata via incombente dal carnale della nipote pensieri fini e zinne dritte del priore. Piccolo Duccio con le Nike ultimo grido ed un sorriso neutro e non definito. Giovane Duccio che non ci credeva per niente in questi stereotipi da giusto e figo. Microfibra di marca e via tutti in barca. Smarrito Duccio che aveva individuato da tempo senza neanche saperlo dov’era la magagna preciso. Cucciolo confuso Narciso.

Me li hai scaricati quegli mp3? La domanda dell’Aurora non lo colse impreparato. Casomai furono quel rossetto rosso fuoco e le labbra che muoveva come nei telefilm quando le bimbe spediscono direttamente nei pazzi i ragazzi a mandarlo un attimo in uno stand by che necessitava un resettaggio. Perché lui era già li che. Cioè. Ma se gli salto addosso succede davvero un casino? Si domandò scoprendosi solo in mezzo a tutti quegli studenti.
Duccio ci impiegò venti secondi a tornare in sé mentre l’Aurora infieriva consapevole dell’effetto suscitato. Allora? Me li hai scaricati o ti sei spadellato a sorbirti il GF? Gli piaceva di fare l’alternativa anche se barava. Lo guardava pure lei il GF e sparava giudizi spinti e mordaci davanti alle immagini di quei sei cerebrolesi. Che si credeva di far arrabbiare suo zio Don Paolo ma si sbagliava.
Te li ho scaricati eccoli. E gli allungò una pen drive con l’occorrente che a lui non era piaciuto per niente. Anastacia e Cremonini e Dolcenera e. Udite udite. Thak That.
Perché mi guardi così? Lo provocò accendendosi (addirittura!) una sigaretta.
Perché come ti guardo? Imbarazzò arrossito il povero Narciso.
Come uno che vorrebbe mangiarmi. Concluse lei stringendo quelle labbra rossetto rosso fuoco e chiamò l’amica del cuore per entrare insieme abbraccettate a fare al liceo un onore. Finendola con uno sguardo/sorriso girandosi malizia/obliqua mentre scodinzolava dal portone che Duccio si sentì tutti gli occhi addosso e un peso nello stomaco diagnostica di coglione.
Se in quel momento avesse avuto Cremonini tra le mani. Anche se non c’entrava una mazza. L’avrebbe strangolato.

Dopo essersi dedicato per mezzo pomeriggio a quel problema matematico che gli aveva fuso mezzo cervello per il mitico Duccio andar in chiesa a confessarsi da Don Paolo non solo sembrò cosa buona e giusta. Ma un escamotage accettabile per mollare lì quel libro uggioso e francamente inutile. Ma a cosa servirà poi la radice quadrata? A cosa? Si chiedeva neutrale ma non banale.
Si inginocchiò sul legno consumato del confessionale per ultimo. Dopo esser stato immobile a testa in su ad osservare rispettoso quel povero Cristo che l’avevano inchiodato lì per colpa nostra. Fece sfollare prima le vecchiette che quotidianamente si presentavano (ma cosa combineranno per venirsi tutti i giorni a confessare? Si domandava tra sé Duccio) e la moglie del farmacista. Che da quando aveva iniziato una focosa relazione con il sindaco. Religiosa com’era ma in preda alla passione. Si precipitava tutti i giorni a raccontar a Don Paolo le sue tresche d’amore con tanto di dettagli che il poveretto se la sognava anche la notte. E certamente non vestita come un angelo.

Don Paolo ho peccato. Mi son di nuovo toccato. Gli venne di dire così più per un senso di familiarità con la situazione che per la sua religiosa solennità.
Pensa te che novità. Ci fai pure le rime adesso? Don Paolo conosceva bene i galletti del suo gregge.
Cosa ci posso fare? È più forte di me. Mi prende tutta una roba. Don Paolo che devo fare. Pregare?
Forse sarebbe l’ora che ti dichiarassi a questa benedetta ragazza. Aveva fame Don Paolo e dopo la moglie del farmacista ci stava sempre bene tirar giù un bicchierino di vin santo che smorzava i languidi pensieri e portò il povero Duccio diretto sul pezzo per fare alla svelta. Di lui e sua nipote aveva intuito tutto da tempo. Bastava osservare come la guardava furtiva e di come lei ci giocava sopra ma attenta affinché la bava del povero giovanotto scorresse incessante.
E come fa a sapere che sono innamorato? Sbiancò poi arrossendo il fragrante Narciso.
Ho qualche anno più di te. Rispose Don Paolo stampando in quel viso di prete un prete di sorriso.
Dice che dovrei davvero dirglielo?
Si. Provaci e fammi sapere.

La ringrazio. Quante Ave Marie?
Lascia perdere e studia piuttosto.
Sembrava a leggerlo così fuori dagli schemi. Ma era solo perché si rifiutava di trattare i ragazzi come piccoli scemi.

Don Paolo aveva accolto la vocazione dopo un percorso onusto ed astruso. Giovane inquieto e di famiglia buona iniziò presto a porsi le domande giuste nel posto sbagliato. Figlio/Prodotto di un’Italietta anni ottanta che sarebbe crollata sotto il peso della Storia e di ritorno da un lungo e misterioso viaggio in India ed un soggiorno nell’Africa francofona del Senegal dove rimase folgorato dall’incontro con due missionari italiani che si dedicavano -con una dignità ed una forza d’animo che lo impressionarono- ad aiutare “gli ultimi della filiera” che erano stati abbandonati da tutti gli Dei e che loro. Con quel piccolo/immane gesto e pieni di una fede che non riscuoteva aggettivi avevano riportato sul luogo del misfatto. Annunciò ai parenti/amici basiti la sua intensione di diventar Francescano. Così. Dopo un pranzo di bentornato che spiazzò la famiglia e gli amici e persino il democristiano Alfonso di lui cognato.
E ce la mise tutta Don Paolo nouvelle talato. Divorò Antico e Nuovo Testamento senza dar cenni di cedimento. Ascoltò attento le disquisizioni di vescovi e cardinali e in tutta quella retorica retribuita mai li giudicò banali. Ogni tanto incontrava religiosi che lo incoraggiavano con dubbi/certezze originali. Più spesso/purtroppo burocrati della fede con un odio represso che odoravan di infelicità e presagio di guai.
Don Paolo che dai cylum indiani era derapato verso il Concilio Di Trento e a giustificare persino le monache chiuse dentro un convento. E pareva pure contento! Lo dicevan tutti. Per prima sua madre che all’inizio era pure preoccupata ma poi si rilassò ed andò di messe e comunioni con una solerzia che la misero voce fissa nel capitolo spese e porta bandiera nelle processioni.

Poi Don Paolo con i problemi di una parrocchia alla deriva e le funzioni e i buoni rapporti con il Monsignore. Poi le sue omelie che. A differenza di quelle di certi preti di chiara fama che sembran diretti da Scorsese. Andavano di semplici parole per un auditorio con poche pretese.
Poi Don Paolo che arrivò all’appuntamento con quel giorno schiacciato da un ritmo omologato che si chiedeva se mollare tutto può esser davvero Il Peccato. Dall’onore e la fede tormentato.

Quel giorno non lo sapeva ancora. Ma tre mesi dopo incontrò Angela. Una ragazza madre che arrivava marchiata appestata da sud di Gomorra. Non furono i suoi occhi scuri di cui non vedevi il confine a farlo abdicare no. E neanche quelle labbra siciliane che smuovevano l’ormone. Men che meno. Anche se lo apprezzavano tutti. Quel fondo schiena ritto e asciutto che strappava quartine in rima. Con ogni probabilità furono la sua dolcezza o forse chissà la sua paura a scioglierlo.
E quando restituito l’abito si sposarono sereni. Da come l’amò. Per primo lui e nessuno dopo si ricordò che Concettina non era sua figlia. E decenni più tardi al suo funerale fu ricordato in uno struggente commiato proprio da lei davanti ad una folla commossa portato ad esempio per l’intera comunità che lo omaggiò nei lustri.

Duccio la sua decisione l’aveva presa davanti a quei trenta euro. Più i dieci che gli avrebbe allungato la nonna bastavano. Con quei soldi avrebbe invitato l’Aurora a mangiare una pizza cometipare e pagare pure lui. E poi avrebbe indossato quella maglietta della Nike che aspettava la grande occasione. Poi si sarebbe spruzzato del profumo mignon D&G che fai sempre un figurone. E come nelle commedie americane si sarebbe ingelatinato i capelli scuri e messo anche il collirio. Perché l’occhio bianco fa occhio d’adone.
E infilando le sue giovani speranze nello zainetto nero s’incamminò verso il liceo.

Pamy guarda che in barca con il Giacomo ci andiamo sicure per mille! L’Aurora era eccitatissima quella mattina. Il signorino Giacomo l’aveva invita a Castiglioncello per un week end VIP. E porta chi vuoi. Aveva aggiunto spippolando lo Smart. La Pamela al contrario. Più ruspante. Non si sentiva così attizzata all’idea. Il Giacomo era davvero ricco questo sì. Ma lui e i suoi pari amici eran delle gran pippe diciamolo. Boriosi. Irrispettosi. E così infantili nella loro superficialità che alla fine la indisponevano. E poi Duccio? Come la prenderà? C’hai pensato Aurora? Le chiese. Ma l’Aurora stava viaggiando già con il vento in poppa e non sentiva più.
Avrebbe capito vent’anni dopo quello sbaglio sbarazzino. Quando separata e con un figlio sulla groppa si mise a ricercar Duccio come lo ricordava da ragazzino. Senza neanche immaginare che l’uomo Duccio di lei ricordava davvero pochino. E infatti fu un’incontro che durò un’illusione di cerino.

Arrivato al liceo Duccio la cercò cacciatore tra lo svolazzare di tutte quelle teste che più d’essere a scuola pareva di ritrovarsi in mezzo ad un mercato. Duccio impacciato a priori ma dentro fortemente determinato. Se solo avesse immaginato il commiato!
Quando la vide di spalle con l’amica del cuore si avvicinò e la tirò da parte ripetendo la frase nella sua mente oramai conosciuta a memoria. Ma quando glielo chiese. Senti un po’ che storia! L’Aurora lo allontanò senza neanche saper bene il perché con fare da regina che la plebe aveva indisposto. Duccio pietrificò ma non cambiò espressione e rimase composto.
Poi con calma studiata tornò verso casa e quando si sprangò nella sua camera sentì qualcosa dentro che non riusciva a tradurre. Chiuso gli occhi e si concentrò. E fu allora che capì che aveva incassato la prima umiliazione della sua vita.
Ma non la prese male. Anzi. Si sedette un attimo guardando fuori il paese che gli scorreva abbioccato sotto gli occhi e aprendo il file bianco del suo piccolo PC scrisse suggerita dal fondo dello stomaco la prima quartina della sua vita tutta d’un fiato:


Amor che tutto prende
Amor solo donato
Amor che tutto vuole
Amor solo sognato