martedì 28 dicembre 2010

Quando un blogger dovrebbe, invece di darsi all'ippica, al cinema....




Mentre tutti aspettano la biografia di Assange, ecco a voi l'attore che lo interpreterà, nell'inevitabile film.

lunedì 27 dicembre 2010

Tre Cavalli (liberamente tratto da "Thre Hours" di Nick Drake)




A suo tempo e a suo modo, questa canzone ha ispirato questo racconto.
Cosa ne è uscito fuori.
Fatemelo sapere.






La prima volta che Terzio sentì parlare dei Tre Cavalli portava ancora i pantaloni corti.
Era stata sua nonna davanti al caminetto nei gelidi doposcuola invernali o mentre lenta stendeva la sfoglia o confezionava le passate che gli raccontava le avventure di questi misteriosi ed affascinanti equini.
Le loro scorribande tra i prati sconfinati delle montagne su in alto dove sfidavano quei branchi di cinghiali “figli del Diavolo” senza paure e lupi ringhiosi ed affamati con le zanne “lunghe come l’avorio”.
Le peripezie tra i crepacci rocciosi dove avanzavano gareggiando in mezzo ad insidie e tempeste mentre le aquile dal “becco brutto” osservavano attente e pronte a colpire.
Della lunga corsa notturna sull’impervio costone sfidando il diluvio per accorrere in aiuto della vecchia madre dell’Arabo che volevano sopprimere in un ippodromo fin giù a Limola. In Perù.
Dei loro alleati Frà Daino Babbo Cervo e Istrice l’Arcera.
Che tra i personaggi minori di quelle favole era una che andava forte.
Di quando quel.

Al piccolo Terzio piaceva da matti star lì ad ascoltarla con quella voce antica ed incisiva che sapeva dar sempre un pathos e un lirismo struggente a quei racconti. E riusciva a supplire all’imposta ignoranza con una fantasia e una dialettica che avrebbe portato tanti bei dieci in pagella lo stesso.
Chiudeva gli occhi stringendo deciso la tazza di latte caldo come una spada guerriera e si immaginava mentre cavalcava il Sauro Bianco. L’Arabo Imperioso. L’Appaloosa Nero Inferno.
Ed anche alla Delia. Che era passata indenne in mezzo a due mondiali e ne aveva viste di belle e di brutte da non saper più discernere la realtà. Con la sua anonima crocchia color neve e il suo inseparabile scialle blu scolorito e quei due occhietti che sbucavano tra le lenti spesse amava inventar sempre nuove avventure per il suo giovane nipote. Un po’ gracile e poco adatto alla vita di campagna. Ma con una grande sensibilità.
Lo intuì da subito.

Quella che più lo aveva colpito ed appassionato era stata la fiaba dove il Sauro Bianco sfidava l’Orso Albino….E ad un certo punto. Mentre i tuoni del cielo sbarcollavano ogni cosa. Proprio quando il Sauro Bianco stava per soccombere. Gli spuntarono due poderose ali che si vibrò in volo e riuscì ad infilzare con una lingua di fuoco l’Orso Albino che….Di solito era verso questa punteggiatura che Terzio. Completamente avvolto dalla narrazione cambiava espressione da bambino a cavaliere. Si rintanava Lancillotto tra i piedi della nonna ed urlava un muori cattivo!
Era bello sentirsi un eroe.
Anche in mezzo a quei campi appisolati ad aspettare che qualche generoso sole li liberasse da quella coltre di neve. Anche se di draghi e di orsi là fuori non c’era traccia. Anche se non era vero.
Pensava poi la sera avvolto dal tepore improvviso del coltrone o dal calore secco e rassicurante del veggio.

Poi venne il giorno in cui il tempo dello favole finì.
E quando Terzio se ne accorse erano passati anni.
Quarantenne gracile e incurvato lavorava senza gloria in quella fabbrica dove si costruivano i capannoni. Che si chiedeva sempre tra se dove sono ‘sti capannoni? Lui vedeva solo blocchi di cemento dozzinali che consumavano le mani tra polvere cattiva e graffi velenosi.
Poi due ore dopo Terzio in mensa seduto un pò qua e un po’ là ad ascoltare in silenzio quei pacchiani discorsi sul commenda che si era fatto da solo e sull’altro che invece era fatto e basta.
Poi Terzio che lo prendevano per il culo un po’ tutti cercando di approfittarsene ed umiliarlo. Perché Terzio non si sa difendere altrimenti fareste meno i galletti! Apostrofava a fine turno Giannetto quei quattro vigliacchetti con la tuta blu. Un’icona dei quadri bassi prossimo alla pensione che forse e quasi incosciamente vedeva in quel giovane un pò spaurito un figlio. Che Giannetto aveva già moglie e tre figli sia chiaro. Tutti sposati e con dei buoni lavori. Due diplomati e una laureata. Caro mio.
Ma vivevan tutti in città e li vedeva di rado e giusto il tempo del pranzo abbondante e delle due chiacchiere e di qualche foglio fresco di conio allungato di nascosto dalla Bruna. Che il Giannetto non voleva ma lei era cuore di mamma sempre operativa. E lui vedeva che non era stupido. Ma invece di arrabbiarsi. Appoggiato alla cornice della porta del salotto buono quando tutti erano partiti e accendendosi l’ennesima MS morbida. Si sentiva quasi fiero. Erano sangue suo santiddio.

Terzio com’è andata oggi? Gli domandava poi nel piazzale della fabbrica a cartellino timbrato mentre si avviavano alle loro utilitarie. Così. È andata. Rispondeva con quello sguardo neutro e distante che gli davan tutti del mezzo matto per questo. Ci vediamo domattina concluse Giannetto.
No domattina no. Mi ha chiamato la banca per non so bene cosa. Ho preso quattro ore.
A casa seduto con la Bruna a cenare e a discutere di quando mi metti a posto il lavabo e a tirar di indovinare le domande dello Scotti iniziò improvviso a parlarle di Terzio. Che era preoccupato. Lo vedeva gracile e. Ma più che gracile abbandonato alla vita ecco. Forse dovrei fare qualcosa. Che ne pensi? Che poi la Bruna lo guardò e gli ricordò i tre figli ed i due nipoti in batteria ed una in arrivo che mollò sul pezzo la questione centrando l’ultima domanda. Che era troppo facile per 3mila euro Bruna dai!

Arrivato al casale Terzio salutò i due fratelli ed il padre che sua madre era morta da allora e si sedette a tavola. Parlavano di problemi e di cose brutte e tristi che a lui non piaceva per niente e svelto e improvviso sparì tra dovuti lavaggi e buonanotte a tutti.
Sotto la doccia di solito piangeva. Protetto dall’acqua bollente e avvolto nei suoi morbidi vapori.
Poi ben pulito si rintanava nella sua camera anonima ed essenziale e si infilava tra le coperte spesse e generose ma non sognava di belle donne nude che volteggiavano sul letto no. Sognava nonna Delia. Di quando gli raccontava le fiabe dei Tre Cavalli. Di quando sentiva che intorno nel suo mondo c’era anche Il Bene. Qualcosa di rassicurante. Di reale.
Forse il tempo delle favole era finito davvero chissà. Aveva sì i peli sulle gambe ed un lavoro “da uomo”.
Come sospirò felice la nonna il giorno che moriva mentre Terzio timbrava il suo primo cartellino da operaio. E il conto in banca e poi ogni tanto si toccava con poca passione immaginando indefinito.
Ma Zio Tasso e quei tre Pompieri Nani là fuori che bussavano alla finestra per catturare la sua attenzione. Raccontavano ogni notte tutta un’altra verità.

Due giorni dopo Terzio sparì.
Senza retorici biglietti o drammatiche telefonate.
Sparì e basta.
Giù in fabbrica i primi tempi non si parlava d’altro. Che si era ucciso. Che era finito in un brutto giro di prostitute rumene. Qualcuno osò dire persino che per me era un pedofilo e lo avevano beccato.
Poi come la collera di Dio improvvisa ed implacabile dai telegiornali diluviò la crisi globale. I nostri invidiati fighetti nelle Wall Street di tutto il mondo l’avevano combinata grossa stavolta. Per qualcuno definitiva.
E del Terzio. Del Gruppo 4 che non funzionava bene e di Giannetto che andava in pensione nessuno ebbe più tempo di parlare. Cassa integrazione. Licenziamenti. Precariato. Ecco. Di queste robe qui si riempirono i commenti delle tute blu da lì in poi.
E con cosa pasteggiavano Totti e Ilary a cena iniziò a fregare un po’ meno a tutti.

Anche se dopo un paio d’anni dalle confidenze di un cassiere pettegolo si seppe un po’ di verità. Qualche buon consigliere delegato dalla banca aveva suggerito a Terzio di investire quei due soldi in un affare sicuro e molto redditizio. Dei bound americani dei quali Terzio non conosceva neanche la disposizione geografica. Per non dire quella economica. E tutto questo tre giorni prima del disastro. Anche se quando quella mattina fu convocato in filiale per apprendere che i suoi soldi ( Mi scusi ma è lei che ha voluto rischiare) non c’erano più stranamente. Aveva raccontato il cassiere. Non si era arrabbiato ne dato in escandescenze ne promesso querele o vendette. Era rimasto chiuso in se stesso per un attimo e poi era uscito dalla banca in silenzio quasi sorridendo. Quando quel giorno Giannetto sentì nel bar del circolo raccontare questa storia tra spume al cedro e qualche frizzantino tornò a casa prima. Si chiuse in garage e si sedette sulla cassetta degli attrezzi.
E stringendo la testa tra le mani pianse lacrime antiche per un amico.

Dove vuole andare la mia principessa oggi? Al circo a vedere le tigri? Al cinema per i cartoni? Da Mec. Mac. Quello lì insomma? Chiedeva un Giannetto radioso a sua nipote Cleo. Sei anni. Che sua figlia Carla l’aveva voluta chiamare Cleopatra con il suo completo dissenso. Poi quando vide quei due occhietti azzurri su quei capelli neri legati a coda che sua madre ci teneva tanto pensò che in fondo la potevano chiamare anche Pollicina. L’avrebbe amata lo stesso.
No Nonno. Andiamo invece al parco qui vicino ad ascoltare L’Uomo delle Storie con gli altri bambini. Rispose lei già tutta eccitata. Giannetto deluse un pò. Voleva offrirle qualcosa di speciale per quei giorni speciali spesi dalla figlia in città che lui non ci stava bene per nulla. Troppo smog e troppo rumore la notte diceva. Ma moriva dalla voglia di vedere sua nipote. Carla lo prese sotto braccio e portandolo in cucina sorridente e comprensiva gli suggerì. Vai al parco con lei. È bello. Ne vale la pena.
Lungo il marciapiede mentre la teneva per mano indugiava sulla città cacciatore.
Non gli piaceva. Era abituato ai suoi tempi e ai suoi boschi e non gli piaceva cazzo.
Palazzi troppo alti. Troppe auto. Troppi semafori. Troppi stranieri. Troppo di tutto.

Appena arrivarono al parco Cleo lo mollò lì e corse festosa verso una panchina dove intorno ad un uomo seduto erano radunati molti bambini. Nonno tu stai qui con i vecchi! Gli urlò che un’altra nonna con 70/100dieci di pressione e i trigliceridi in fila per tre sorridendo lo invitò ad accomodarsi con lei. Mi scusi signora. Ma chi è quest’uomo. Un barbone? Mia figlia mi ha raccontato che vive tipo per strada. Esordì preoccupato Giannetto. La vecchia alzando gli occhi dal libro sorrise. Un barbone? Può essere una buona definizione. Da queste parti invece in molto pensano che sia un angelo. Qualcuno mandato dal cielo per far star bene i bambini. Prima di lui qui non c’era niente. Poveri ragazzi drogati e spacciatori dai contorni cattivi e basta. Continuò chiudendo il libro con l’intento di spiegargli bene la storia. Poi un giorno è arrivato lui e si è seduto su quella panchina. Proprio quella dove lo vede seduto ora. Ed ha cominciato a raccontare delle favole. All’inizio era solo. Poi si è fermato ad ascoltarlo un bambino. Poi tre. Poi dieci. Poi i bambini di tutto il quartiere. E infine si e sparsa la voce. Guardi che arrivano da tutta la città per ascoltare l’Uomo Delle Storie. Concluse sghignazzando nel vedere Giannetto un po’ perplesso da questo racconto. Non vive per strada. Gli diamo una mano un pò tutti quando ce lo permette. Dorme in uno scantinato del lattaio. Mangia alla mensa della Caritas e ogni tanto accetta qualche vestito. Ma non vuole soldi. Non ne vuole sapere.

Incuriosito Giannetto si alzò e scusandosi si avviò verso quella panchina. Era una bella giornata ed i raggi di sole si infilzavano tra i rami degli alberi come spade di fuoco. Pensò quasi sorridendo tra sé.
C’erano tantissimi bambini. Quell’indianina lì con la candela che andava su è giù dal naso mentre ascoltava completamente rapita la storia. I due maschietti rumeni un po’ magri e con gli occhi grandi che eran ben preoccupati per gli eventi della favola. Le sorelline tummistufi che avevano abbandonato i loro freddi giochi elettronici e si erano sedute con gli altri ad ascoltare rapite l’Uomo delle Storie. I gemelli di quella coppia simpatica ed attiva che vivevano proprio di fronte a sua figlia Carla. Quella bambina sorridente più in là che.
Poi quando fu quasi lì non credette ai suoi occhi. Era Terzio.
L’Uomo delle Storie era lui. Dio mio quanti anni! Era Terzio per davvero.
Vestito anonimo ma pulito e bene risultava dignitoso. I capelli un pò bianchi ed il viso più scavato ma sereno. Cristo se era sereno. Lo percepiva lui da lì. E poi l’aria. Non aveva più l’aria dell’operaio anonimo e dimesso che aveva conosciuto affatto. Dava più l’idea di un professore strano eccolo lì.

E mentre si avvicinava sempre di più iniziò a sentire una voce conosciuta che prendeva forma e che raccontava profonda e avvincente a tutti quei bambini sognanti…E ad un certo punto. Il Sauro Bianco si liberò e gli spuntarono due ali che vibrandosi nell’aria infilzò con una lama di fuoco…Fu proprio allora che in un silenzio studiato Terzio si girò e gli sorrise.
Lo aveva riconosciuto.
Giannetto non disse una parola. Prese stupito sua nipote tra le braccia e quasi commosso si sedette insieme a lei e a tutti gli altri bambini ad ascoltarlo.

E da allora nel parco di quel quartiere in mezzo ad altre Mille Storie si iniziò a narrare e a meravigliare anche della fiaba sul Vecchio Venuto Dai Castagni. Che in quel pomeriggio pieno di un sole “che brillava come l’oro zingaro”. Ascoltò dalla voce di un angelo seduto con la sua piccola nipote dagli occhi blu “come le onde del mare”. La più bella favola che avesse mai sentito raccontare in tutta la sua vita. Proprio quella dei Tre Cavalli. Che ignorando la bassezza/grandezza degli umani. Galoppavano incontro ad un destino che non era stato ancora scritto.

sabato 18 dicembre 2010

Regalo Di Natale: Ci Sono Notti


Ci sono notti con occhi ad occhi aperti
Con sguardi che proiettano fusi orari oracolanti
Metamorfosi compiute/Concetti divaganti
Notti che son sopravissute persino ai naufraganti
Notti di sensazioni/Notti con i guanti
Notti fredde arrovellate a una coperta
Che s’esibisce verso l’una leggerina
Poco dopo troppo corta
Di sicuro intramezzata di quartine
Che ti fanno l’occhiolino
Ma sopra il piatto/comodino
Solo briciole di torta.

Sono le notti che ti svegliano improvvise
Che aderiscono a te stesso e ti trascinano odalische
Verso venti di deserto/Tramontana di montagna
Polverose carte/bische
Senza suoni di riscossa
Senza i suoni degl’ottoni
Son le notti che artigiane ti cesellano a discorsi
Sotto ostaggio di pensieri che assapori conclusioni
Le Consonanti con tempesta/Le Vocali con profitto
Mentre stampano pari a pagine/romanzo
Il finale della notte sulle travi del soffitto.

Ci sono notti chiuse dentro la foschia
Di atei sgarruppati/Giocolieri con le mance
Mussulmani di rigetto/Sancho Pancho delle arance
Notti freddo/calcolo del genuflettersi al Vossia
Notti/Cruciverba Notti/Mamma mia
Notti ispirate all’alambicco/Più spesso al sacro vino
Notti pressappoco/Notti di destino
Notti che sei in volo/Notti di frontiera
Notti che sono state/Soltanto una chimera
Notti dove ascolti parlare lo straniero
Notti che ti senti vivo per davvero
Notti dove credi di partir per sempre
Notti che a pensar che non sei mai partito
Non ti lascia per niente indifferente
Notti coltelli lunghi/Notti scudisciate
Notti che sanno di fumo/E pure di porcate
Ci sono notti che son finite in una sera
E notti che non è bastata neanche un’era
Ci son le notti di come eravamo/Di come siamo
Di come in quelle notti/Il tempo è speso invano.

Ci sono notti/femmine che han fatto le sante tutta la vita
Notti che hanno visto troppi anni rigirarsi tra le dita
Che han passato troppe notti tra i rosari
Troppe ore per i cari
Troppo tempo a far la spesa
A issar bandiera bianca/A viver vita arresa
E che proprio quella notte strapperebbero la vestaglia
Per offrire zingare il loro secco Frutto
Il seno/Le labbra/Insomma Tutto
Al viril che maschula pretesa/E iniziar sensual battaglia
Pari a donna della strada/Pari a donna malaffare
Come femmina che s’offre/Come femmina d’amare.

Ci son notti senza Crocifisso/Senza Sacrestia
Notti senza l’Ostia/Senza Ave Maria
Notti di candele a sfrittelare
Di San Paoli a straparlare
Di silenzi a illuminare
Notti dove il Don/Senza riflettori e processioni
Non sa più dov’è l’altare/Notti da scomunicare
Notti che avrebbero voglia persino di scopare
Notti che alla tunica le ginocchia fan tremare.

Ci sono notti che di sesso assumon la sembianza
Notti brivido caldo/Strada buia
Mercenaria la speranza
Notti di sesso infuocato/Notti/Sesso intorno al fuoco
Corpo d’abbandono sciolto tra le mani/Pari/Fosse d’uopo
Notti di sesso speranza/Notti di sesso violenza
Notti fammi tutto/Notti che se ti bacio/Danza
Ci sono notti che cercano/Stillettando tra i ricordi
Quello sguardo riesumato/Che paria dimenticato
Quell’aroma di sudore/Di ti amo disperato
Dove strisciano sensuali/Tra le gambe e l’alluvione
Calde gocce di piacere/Calde gocce di tepore
A soffiar la voce/donna Indicibile/uomo da tenore
A tornar d’orgarsmo i gorghi/Amor vieni con me
Vieni con me amore.

Ci son le notti del neonato/Le notti del bambino
Notti sogni brutti/Dormi con me babbino
Notti pollice in bocca/Notti pannolino
Notti con zio Teo/Notti Pollicino
Ci sono notti che dondolano culle
Talvolta le badanti/Più spesso le fanciulle
Ci sono notti che Lo prendi tra le dita
Ed è osservandolo che osservi/Il segreto della vita
Ci sono notti di poppata/Notti dove mamma fa la fata
Notti dove capisci quanto è importante
Per uno come te che giocava a far lo scaltro
Aver responsabilità eterna per questo pargolante
Che quando torni a letto vorresti farne un altro.

Ci sono notti di miseria/Notti letto/straccio
Notti sotto i ponti/Notti sotto il ghiaccio
Notti che hanno fame/Faccia triste da pagliaccio
Ci sono notti che contano i ramini
Come tasti di una fisarmonica
E che sognano di far con quei due soldi
Una cena versione faraonica
Ci sono notti di straccioni barcollanti
Di destini deliranti/Aggrappati alle ringhiere
Recitar L’Inferno e i Canti
Che trascinan cani alati/Pezzo forte dei prelati
Per la strada senza arrivo/Per la strada senza fede
Son gli stessi che se incontri/Cambi svelto marciapiede.

Ci sono notti classificate per i lavoratori
Turni strani/Io lo so
E’ dopo un po’ che dai di fuori
Ci sono notti tornite per viver da operai
Notti timbra cartellino/Il capoccia cerca guai
Ci sono notti di chi scarica casette
Mille fatiche/Cento colori /Quattro chiacchiere
E in un lampo son le sette
Ci sono notti per il disoccupato
Messo a scegliere tra delinquere/O finirla da impiccato
Gioco/Speranza/Giocato
Ci son le notti dei precari/Di lavoro precariato
Un giorno numero da vendere/Alle statistiche modernariato
Il giorno dopo come niente/Fastidioso numero dimenticato
Ci son notti mezze seghe/Che si vendon sindacalisti
Rimborso assicurato/A mangiar coi camionisti
Guarda che faccia/Guarda che trippa
Sti cazzo di arrivisti.

Ci sono notti che son notti per concetto
Notti che ti senti inchiodato su quel letto
Notti improvvisate/Notti di dialetto
Notti che si trasformano in una sceneggiata
Notti vola basso/Notti di facciata
Ci sono notti da comprendere al mattino
Notti che non ti stacchi dal fuoco del camino
Ci sono notti che cammini nella notte
Coi pensieri come un puzzle/Coi pensieri d’ossa rotte
Ci sono notti che non esitano/A esaltar le incomprensioni
Ci sono notti che lo giuri/Che stavolta non perdoni.


Ci sono notti che son notti della Morte
Crisantemi messi in cerchio/Lacrimar dietro le porte
Ci sono notti che son morte troppo giovani
Notti che l’asfalto spazza via
Curva/schianto che finisce/Nell’inchiostro/Polizia
Ci sono notti che son morte per dolore
Notti che la morte cambia i conti
E che li chiude in poche ore
Ci sono notti morte per lunga malattia
Morti che in una notte in silenzio volan via
Notti che muori solo/All’improvviso
Notti che muori solo/Con un sorriso
Ci son notti che ti senti così vivo/Che potresti anche morire
Ci son notti che ti senti così morto/Che la vita/Che patire
Ci son notti che son morte con le tasche pien di guai
Ci son notti poi risorte/E che non moriranno mai.

Ci sono notti che ti sogni da poeta
La luce porta ghiande/Il buio vera seta
Ci sono notti che le prendi come un dono
Qualcuna porta gioia/Qualcuna anche il perdono
Ci sono notti che ti guardi nello specchio
E smettendo di far finta/Sai che vai a imbiancar/Vecchio
Ed allora guardi dentro/Rovistando nell’aurora
Per vedere se il motore/Là/Nel centro pulsa ancora
Ed ascolti trattenendo anche il respiro
Una rima che nel battito assapora:
Cuor d’amor/Cuore dannato
Cuor di cicatrice/Cuor di colore
Cuor che ha perso rima e speranza
Nell’ideogramma amore.











mercoledì 8 dicembre 2010

Danny Ocean

postino:

Danny Ocean è un racconto che ho scritto tempo fà.
Gli ho sempre voluto un gran bene.
Tanto da pensare di svilupparlo in qualcosa di più.
Dovrebbe strappare più di un sorriso.
E se ce l'ha fatta davvero, far fare due pensieri.




Lo chiamavano tutti Danny Ocean perché le donne quando parlavano di lui lo sospiravan più bello del Clooney. Il fatto poi che giocasse e scommettesse praticamente su tutto gli incollò quel nome direttamente sul set di documenti. Lo chiamavano così gli amici del bar ed i nemici del poker. Tutti i parenti ed il nonno finanche il sindaco. L’appuntato mamma e papà. Persino lo psicologo e all’anagrafe lo chiamavano Danny.
Solo la Mariella si ostinava con quel pomposo Giammarco che appena la sentivano scattavan tutti sugl’attenti. Anche se quello era il suo vero nome e lei la fidanzata sto(r)ica. Quindici anni a patire e piangere per questo fannullone bell’imbusto che di metter su famiglia non ne voleva proprio sapere. Che la Mariellina era una trentacinquenne da sposare altrochè. Brava disponibile e gentile sempre con tutti. Bella e con un fisico ben tenuto ad illudere la palestra mentre si sfogava di steep. Seria e tutte le domeniche alla funzione a impressionar del Vangelo. E poi il padre e la madre. Gente tanto per bene.
Se le malelingue avevan da ridir qualcosa su di lui era solo sul fatto che era ricco di famiglia. Ma si trattava di piccole gelosie e niente di più. Anche se di questa fortuna non se n’era mai fatta una colpa intendiamoci. Come della vita non ne aveva mai fatto questioni di classe sociale o concetti filosofici e men che meno meritocratici. Che a lui del ceto e della politica fregava come una tris che va di fantini sleali buttati in contumacia dietro sbarre cassate. Ed il mondo lo divideva con semplicità in due categorie. I giocatori e tutti gli altri. Anche se sui giocatori aveva poi una serie infinita di profili e teorie che esponeva incessante. Ma riconosceva convinto che alzarsi tardi e giusto per lo spuntino delle15dici era un bel privilegio. Soprattutto se hai finito quella dannata Teresina alle sei del mattino a casa del Certini lasciando sul tavolo (verde) della cucina tre bei pezzi da cento mentre la moglie si alzava ad inveire contro tutti incazzata nera.
Che al Danny se lo guardavi bene era bello per davvero. Alto sull’ottanta e pettorali da tre volte a settimana. Che anche se era diventato un vizioso del gioco di tener tonico l’aspetto non s’era mai dimenticato. Dentatura vip e i capelli scuri da copertina che andava ogni quindici giorni in città in quel famoso salone a farsi fare i ritocchini. Due pacchetti di Marlboro rosse Mercedes cabrio e via andare. La mascella da telenovellla ma senza tirarsela fino ad usar persino creme antirughe. Che a 40anni scalpitano. Ma questa non si doveva sapere in giro e quindi non ve l’ho detta. Mi raccomando.

Sul Danny e la sua cricca giravano delle leggende da far impallidire il Batman.
Come quella volta che partiron per Venezia perché aveva sognato chiaro il suo preferito Lucio Battisti che gli ordinava (Sì sì ordinava. Mi ha detto proprio così) di andar subito a puntar deciso tremila robusti euri sul ventidue al tavolo 4 del casinò su in laguna.
Chiaramente la proposta passò all’unanimità in due minuti secchi perché con i sogni non ci si scherza mica. L’unico problema casomai era trovare una scusa per la moglie del Certini che passavano un momentaccio. I funerali credibili oramai se li eran giocati tutti e far morire la gente due volte pare brutto. Ed il Bianchetto si era stancato di dover passar sempre per quello che si sentiva male e lo dovevan portar d’urgenza che alla fine mi succede qualcosa sul serio diceva. Poi con la promessa che avrebbe viaggiato seduto davanti andata e ritorno cedette e si optò per una colica di reni che anche se gli veniva davvero di solito non son pericolose. Lo tranquillizzò il Danny. Ed i preparativi diventarono operativi.

Tutti sanno che quella mattina quando si fermarono a fare il pieno nel distributore e a al bancomat del paese erano lui il Certini il Bianchetto e basta. Ma acquattato dietro c’era pure il mitico dott. Gattai. Anche se questa ce la teniamo per noi dato che la moglie è sempre stata convinta che fosse andato a Benevento per un simposio sulla prostata.
Di quella serata lì esistono almeno quattro versioni di cui due poco attendibili. Di sicuro fu il Certini che nell’atto dell’entrata trionfale ricambiato come un modello e con i mocassini neri Paciotti che li aveva pagati una fortuna scivolò sui marmi crollando a terra indecoroso. E gìà da qui le versioni cambiano. Sì perché c’è chi sostiene che mentre cadeva si aggrappò stappandolo al tailleur di una signora austera lasciandola scandalizzata in biancheria ma rialzandosi tirò via due pezzi da 500ento e glieli mise tra le mani persuadendola con un bondiano e seducente mi scusi e se ne compri un altro cara.
Ma questa era una mossa che non rientrava nel suo baget né nel suo stile e dunque non solo bollata come un’esagerazione emozional/narrativa. Ma con grande disappunto del Certini medesimo che la vedeva invece bene raccontata così. Tracimata senza appello tra le versioni poco attendibili.
L’entrata del Danny invece ce l’hanno ancora tutti davanti agli occhi. Con le mani in tasca fasciato in quell’Armani fumo di Londra e la marlboro piegata tra le labbra che infilava un cinquanta nel taschino di un security chiedendo distante ed ispirato mi può indicare dov’è locato il tavolo numero 4? Che il Bianchetto sostiene che si precipitò addirittura il direttore ad accompagnarlo.
Tutte e quattro le versioni concordano che si sedette alla desta del croupè sistemando giocoliere le fishes e le sigarette mentre ordinava un Lagavoline. Doppio. Fece poi passare un giro osservando competente gli altri giocatori ed al successivo fate il vostro gioco posò tre fishes sul nero ventidue. Quelle da mille euro cadauna per intenderci. In due versioni si sostiene che il croupiè prima di lanciare la pallina lo radiografò e stupì dell’indifferenza e della classe. Quando la sfera destina iniziò a girare il Certini e Bianchetto erano appoggiati ad una slot con visuale ottimale che il Certini. Anche se adesso non lo dice. Non ci credeva che.
Il Danny era solo ed instillato perché al tavolo della roulette non voleva gente dietro mentre il Gattai senza perder d’occhio gli eventi si stava scaldando al Black Jack con poca fortuna. Ma il dott era un diesel. Lo dicevano tutti.
Furono momenti interminabili che si stamparono nell’espressioni dei compari. Danny invece in quel momento era da un’altra parte. Con ogni probabilità nel nirvana dei giocatori a cerimoniar quei due secondi che per qualcuno voglion dire una vita. O forse catapultato in quel cono d’intensità che si sintetizzava tra semi numeri combinazioni e impossibili possibilità. Di sicuro però era lì quando la pallina si fermò incasellata nella ghiera della roulette. E vide ben bene dove si era fermata. Dove aveva deciso di dare una spallata alle norme e alle regole. Che sberleffo stava dispensando alla vita ordinaria ed ai suoi patetici numeri.
Proprio sul ventidue. Proprio lì.
108.000 euro si ritrovò appoggiati di fianco al balon svuotato e al mezzo pacchetto di Marlboro.
Centoooottomila.
Conosco gente per bene che c’ha impiegato due generazioni per metter su una cifra così.

E secondo voi cosa fece a questo punto Danny? Tirò su il malloppo e se ne andò? Si mise a saltare dalla felicità? Fece stappare lo champagne migliore? Si mise a messaggiare la vincita a tutti?
Niente di tutto questo. Lanciò una fishes nera al croupiè che annuì e con freddezza calcolata radunò gli amici che complimentavano mentre si viveva quel momento di trance che riassumeva il compendio del giocatore. Tirò via ottomila euro per le spese e smazzò in quattro parti la vincita pronunciando una di quelle frasi che ti fanno entrare direttamente nella leggenda senza neanche passar dal via.
Prego ragazzi servitevi e divertitevi.
E si divertirono eccome. Si sguinzagliarono per le sale del casinò a dispensare fishes sfidando con ardore la dea bendata che però quel giorno il suo obolo l’aveva pagato e quindi poi fu picche per tutti. Così al mattino non solo avevano perso tutto ma Danny e il Gattai ci misero sopra altri tremila. Quasi con soddisfazione verrebbe da dire. Senza contare poi i mille a testa che spesero nel selezionare dal catalogo de luxe dell’agenzia di modelle più cool della città le quattro ragazze che omaggiarono il loro riposo in laguna.
Perché come sentenziò un Certini particolarmente ispirato lungo la strada del ritorno mentre il Gattai confidava un po’ arrossito le acrobazie della signorina avendo però da dir la sua sull’obolo.
Quando si va in trasferta non ci si deve far mancar niente!

Carlino! Racconta un po’ ai pivelli qua del video poker perché ti chiamano tutti Bianchetto! Al Certini piaceva sfottere quei cupi giocatori imbambolati da quelle macchinette che lui e pure il Danny disprezzavano. Per loro il gioco era movimento e fantasia. Una sfida alle regole e alla logica. Cervello ed imprevedibilità. Esperienza e un po’ di culo. E non capivano quei quattro bischeri che dilapidavano i salari a spingere bottoni lampeggianti.
Non erano giocatori veri per loro.
Lascia perdere che oramai la sanno tutti. Replicò il Bianchetto falso modesto.
Ma se lui si crede di star lì a far la star infierendo su quei poveri spingibottoni per sviare gli indizi allora ve la racconto io.

Tutto iniziò quando il Danny si mise a teorizzare un’uscita di classe al casinò di Montecarlo. Con un puntiglio di dettagli e cifre che impressionò tutti. Secondo i suoi calcoli per un week end senza rischiare figuracce tra tavoli verdi e vizietti vari ci volevano un 70mila a testa. Se poi si vinceva era un’altra storia. Per lui non c’erano problemi a rimediare il baget ed il Certini. Se riusciva a far passare sotto il naso della moglie quel monolocale che aveva appena ereditato dalla ricca zia fiorentina era coperto. Il problema rimaneva Carlino che era impiegato nell’azienda dello zio e c’aveva il salario che era quel che era e diversi debitucci in giro ma senza strafare. Un bell’ostacolo. Anche se aveva già deciso che se non ce la faceva una mano gliela avrebbe data lui. In trasferta senza il Carlino no davvero. Concluse in privato il Danny che. A modo suo. C’aveva un cuori grande così.
Si scervellò il mitico Carlino in quei giorni. Dalla razionalità alla fantasia provò e riprovò ma non trovava la soluzione. Poi quando ricevette l’acconto che aveva chiesto allo zio che c’ho la macchina da riparare gli si accese la lampadina. In fondo cosa ci voleva pensò. Bastava con un po’ di bianchetto cancellare dall’assegno quella quasi offensiva cifra di 7cento euro e cambiarla con un bel 70mila. Che tra l’altro pensò convinto che per un uomo con uno scopo come il suo eran più che meritati.
E lo fece. Spalmò il bianchetto e con la penna dello stesso colore scrisse la cifra e si presentò in banca tranquillo per riscuotere l’assegno. Il cassiere quando lesse l’importo alzò gli occhi e su un gioco di luce scoprì chiaramente la correzione chiamando immediatamente il direttore mentre il Carlino un po’ in fragrante protestava con un lei comunque me lo cambi. Poi casomai passa mio zio. Gli andò di lusso che un impiegato che lo conosceva lo chiamò e arrivò appena in tempo che il direttore stava già telefonando ai carabinieri. E tutta la faccenda fu archiviata con una pedata nel culo e un quanto sarai coglione eh?
Che il Ghianda gli voleva bene a suo nipote. Anche se lui giocatore non lo era ma puttaniere sì.
Per i night della zona ci aveva lasciato orgogliosamente due agriturismi e non so quanti ettari di castagno.
Per la cronaca. Quella trasferta purtroppo rimase solo una chimera ma da quel giorno il Carlino cambiò pelle e nome e diventò per tutti Bianchetto.

Giammarco scusami ma oggi dobbiamo parlare seriamente. Eccoci. Era passato un altro mese. Infatti il Danny aveva notato che da tempo la Mariella. Precisa come un ciclo mestruale. Gli attaccava il bottone che più odiava. Questa volta però aveva tirato fuori la salute del padre e quando iniziava da lì bisognava portar pazienza. Giammarco hai quarant’anni. Lo capisci? Non sei più un ragazzino. Quando comprenderai che la vita non è solo gioco e divertimento? Quando inizierai ad assumerti delle responsabilità?
Piccola Mariella. Aveva ragione e in fondo la capiva se era delusa dal suo comportamento. Vedeva la vita come un gioco. Era proprio così. Era più forte di lui. Aveva preferito e deciso di usare la fortuna di esser ricco per divertirsi e godersela con gli amici. Era vero. A differenza di tanti ricchi di sua conoscenza che nell’arroganza e nella saccenza propiziavano l’agio sociale e sul peso del loro conto corrente la giustificazione per porcate di inutile ingordigia e guardando senza mai fissar codardi gli sguardi di nessuno.
E a lui quel genere di gente lì stava proprio pesa.
Perché ci son mille modi per esser ricchi ma solo uno per esser signori.
Si ripeteva insospettabile e samurai quando li sentiva parlare sempre a voce troppo alta.
Più di uno l’aveva persino criticato ad una noiosa cena dei Lions che suo padre pover’uomo ci teneva tanto per l’amicizia “con quel morto di fame” del Carlino. Pensa un po’ che classe e che finezza. Raccontò poi sprezzante ad un Certini che si aggiunse intonato al coro di infamie perché guai a toccargli il Bianchetto.
Però sulla storia della responsabilità la Mariella si sbagliava dai. Concludeva tra sé. Andare a vedere il Gattai servito di mano con un tris di re gli era sembrata invece una bella responsabilità presa giusta tre ore prima. Anche se aveva capito da subito che bluffava. Ma non era questo il momento di dirle certe cose. Anzi. Le prese tra le mani quel dolce viso candido impreziosito da un trucco leggero e dopo un bel bacio le sussurrò. Amore hai ragione. Ma le cose stanno per cambiare te lo prometto. Intanto ho una sorpresa per te. Andiamo a fare un bel viaggio. Ti porto in America. La Mariella lo acquerellò di paesaggio con moglie sognante e si mise a piangere dolcemente petali di rose mentre sospirava un bel ti amo a colori.

E che cavolo ci vai a fare in America? La porti a vedere l’orso Yoghi? Lo canzonavano al bar gli amici e le comparse che il Danny lo ammiravano come ad un divo. Girandosi con il prosecchino a mezz’asta fissò tutti con quell’occhiata canaglia che gl’intimi conoscevano bene e li stupì ancora una volta con un branco di bifolchi. Mai sentito parlare di Las Vegas?
E fu proprio dopo una settimana passata ad aspettarlo tra i casinò di Las Vegas che la dolce Mariella dissanguò le ultime speranze di vedere il suo Giammarco cambiato e maritato e si immolò rassegnata definitivamente senza giocarsela. Guadagnando però del calendario una posizione di tutto rispetto con tanto di nominativo in rosso. A viver nell’ombra della leggenda del grande Danny Ocean.

mercoledì 1 dicembre 2010

Agadir-Firenze. Solo andata.

Prologhino
Questo racconto l'ho scritto negli anni kenyoti ed è stato anche pubblicato da un mensile.
Poi per curiosità tre mesi fa l'ho spedito per le selezioni di un concorso: Io-Racconto 2010 Firenze. tra 1600 ne hanno scelti 50 e pubblicati in un libro a grande distribuzione.
Ecco, lui c'è in quel libro.
Una piccola soddisfazione per il blogger ed un piccolo regalino per chi legge.


Mustafa vive a Firenze da 15 anni. Arrivò da Agadir, Marocco, dopo aver pagato 2 milioni ad un pusher di carne umana per raggiungere un suo parente che viveva nel bresciano.
C’era un buon lavoro per lui. Gli promise.
Viaggiò nascosto in un camion e la fece franca. Erano i tempi degli sbarchi in massa degli albanesi e passare la frontiera su al nord risultò uno scherzo. Come il lavoro promesso dal parente. Diede a Mustafa un chilo di hashish e gli spiegò dove portarlo. Mustafa obbedì, ma quando a casa tirò su i suoi due stracci e partì per Firenze. Fare lo spacciatore non era per lui.
Trentenne mussulmano moderato, con una splendida moglie e un figlio in arrivo, magro dallo sguardo intenso e buono, Mustafa sognava un lavoro onesto per mandare poi i soldi a casa.
Che avevano bisogno di mangiare e che suo padre non stava bene e necessitava di cure.
Iniziò a fare il lavapiatti nelle trattorie fiorentine. A curare i giardini dei bianchi. A portargli in giro il cane. A fargli la spesa. Ad andare in posta a pagargli le bollette. Senza dar segni di stanchezza. O di insofferenza. Come se niente lo toccasse. O come se tutto gli scivolasse addosso.
E iniziarono ad arrivare i soldi a casa.
Poi un leinonsachisonoio gli dette una mano con la burocrazia, diventò regolare e Fatuma poté riabbracciare il suo amato.

Ma io l’ho saputo dopo tutto questo. Mustafa l’ho conosciuto due anni fa. Che nel ristorante dove lavoravamo c’era un albanese prepotente che non gli dava tregua. Così una sera, stanco di veder umiliare una persona per niente, l’ho presi da una parte. Usai fredde parole a stilletto. Funzionò. Certa gente solo quel linguaggio capisce. Ma da quel giorno nessuno prese più in giro Mustafa e lui, con quel fare silenzioso e pieno di rispetto mi sorrise, e diventammo amici.

Oggi rivedo Mustafa. Dopo un anno. Al telefono tra emozione e circostanza ci siamo dati appuntamento in piazza S.M. Novella. La casbah di Firenze. Verrà anche Fatuma. Che c’ha voglia di vedermi. C’incontriamo in un ritaglio di normale. Abbracci e baci discreti. Sorrisi al cous cous. “E ti trovo proprio in forma”. “ E tu sei sempre più bella. Ehi Mustafa. E tu sempre a dieta?” E giù risate e sorrisi rilassati. “E Ibrahm? Come va? Tutto ok?” E sguardi buttati là.

Questo strano quadretto multietnico richiama l’attenzione e intorno ci guardano un po’ tutti. I cingalesi con il placido sorriso d’oriente e lo sguardo di chi è lì per sbaglio. Gli albanesi che rumoreggiano inutilmente con lo sguardo carico d’odio e sconfitta. I romeni, oramai carichi d’odio e basta, persi in delirio alcolico che sa di guai. E I nord africani che cazzeggiano ma con discrezione, puntando le turiste attempate e sperando una vita da mantenuti come nei film.
Più in là ci sono alcuni marocchini che indossano il Kanzus. Alti. Seriosi. Mussulmani fin nel midollo. E non sto facendo complimenti. Ci puntano troppo e non mi piace. Poi uno chiama Mustafa e iniziano a discutere animatamente. Hanno da ridire sul fatto che Fatuma parli così amichevolmente con un infedele e in un posto pubblico poi. Ma Mustafa tiene duro e cita pure il Corano e li benedice a modo e quando torna indietro mi sorride arabo e mi prende sottobraccio e mi fa “Ho voglia di un bel the fumante andiamo”. E mi prende sottobraccio anche Fatuma che sto lì per commuovermi. Bisogna saperli riconoscere i gesti che contano per davvero. Perché spesso si nascondo tra le pieghe di momenti che ci passano sotto gli occhi così.

Ci sediamo in un bar e iniziano a parlare di preamboli. Poi Fatuma mi guarda con gli occhi di mamma. C’è un problema con Ibrahm. Il padre della sua fidanzatina osteggia la loro storia e non ne
vuole sapere di avere un mussulmano per casa. E Ibrahm, per reazione, ha mollato la presa religiosa e non segue più neanche un precetto. Anzi, li viola di proposito. Mi chiedono di parlarci e di fare qualcosa a te che ti vuole bene e ha attaccato persino la tuo foto in camera ti ascolterà.
Dico preso in fuorigioco che lo farò. Ma di che cosa devo parlarci non l’ho proprio capito ma lo tengo per me. L’invito a cena per quella sera sarà la scusa per recitare la parte dello zio.
Dovete sapere che Ibrahm è nato in Marocco ma aveva appena un anno quando arrivò a Firenze. Ha vissuto sempre qua. Parla fiorentino che salta una consonante ogni tre. Tifa Viola, fa gli striscioni e va in Fiesole. Porta i pantaloni strappati sotto gli slip e gli orecchini. Ascolta Ligabue e i Negroamaro e smanetta bene con il pc. Sogna di fare il grafico e si farà un sacco di pugnette.
Come qualsiasi ragazzino della sua quindicenne età. Capite? Un adolescente viene ferito nel bel mezzo della sua prima storia d’amore perché ha la pelle un pochino più scura. E basta. Mi chiedo se a qualcuno sta sfuggendo il significato della parola abbronzarsi. O di solarium. E quanto tempo e soldi spendiamo per avere anche solo per un attimo la pelle dello stesso colore di Ibrahm. Eh?

Arrivo puntuale alle 20. La casa dei Mustafa è piccola ma dignitosa. Foto di vita normale sui muri. Ci sono anche gli innamorati a Venezia. E la Mecca. Pochi ninnoli ma tutti essenziali. Mi piace l’aria tra oriente e occidente che c’è. La cordialità di Fatuma è da perfetta padrona di casa. Discreta ma piena di attenzioni. Mi ha comprato anche la birra. E mi guardano tutti e due come a dire per te soltanto lo facciamo capito? Stappo sorrido e mi fiondo in camera di Ibrahm che è al pc e sta in cuffia. Quando si gira strabilia. Mi abbraccia e mi da il cinque. Indica la foto. Sto tra Ligabue la Viola e tutta una roba di grafica che abbaglia gli occhi. Il letto è in disordino a modino. Scarpe in giro e magliette in ogni dove. Il tavolo pieno di fogli e flyers e penne strane e pezzi di pc e riviste e qualche quotidiano. Persino.
È proprio un bel ragazzo. Magro magrebino. Capelli neri neri tirati indietro e affogati nel gel. Occhi scuri di cui non vedi la fine. Due campanelle nel lobo sinistro e un pircing discreto sulle sopracciglia. Potrebbe tranquillamente fare il modello. Glielo già detto. Gli allungo l’ultima versione di Nero già craccata che lui si mette subito ad istallarla con un grandemau.
Eccolo qua il pericolo arabo.

La cena è cous cous per davvero. Si pesca tutti dallo stesso vassoio e con le mani. Sanno che anch’io mangio alla loro maniera e che quel modo anche per me rappresenta un senso di comunione e rispetto che sfugge quasi sempre agli occhi degli occidentali. Si parla del vago. C’e una piccola tensione nell’aria che si muove come un elettrocardiogramma.
Finito di cenare propongo ad Ibrahm di uscire. “E voglio conoscere la tua bimba”. Aggiungo.
Che rimane un attimo così e poi fulmina i suoi come per dire “glielo avete detto eh?”

Quando arriviamo al pub il gruppo di Ibra, così lo chiamano tutti, è in formazione tipo. Riconosco subito Giulietta perché lo guarda come un Dio che ha avuto la strana idea di infilarsi ai piedi un paio di Nike distrutte. Mi presenta con il linguaggio della loro tribù. Mi guardano tra lo sfavato e il curioso. La storia che vivo in Africa gioca a mio favore forse, ma per molti ho la stessa età dei loro genitori e mi immagineranno come un padre rompicoglioni, di rimbalzo.
Giulietta mi sorride continuamente e fa espressioni buffe. È davvero carina. Magra, capelli corti, naso alla luna e due occhioni così. Vestita come una disadattata. Come tutto il gruppo d’altronde. Ma con un suo stile. Si incolla ad Ibrahm e non lo molla un attimo. Fa buon sangue osservare un gruppo di ragazzini fare i quindicenni che provo a decifrare i loro codici. Ibrahm è uno dei leder e da l’idea che se lo sia guadagnato. Quando dice cose che riguardano il gruppo tutti lo ascoltano con interesse. E non alza mai la voce. Cosa che gli altri fanno continuamente.

Poi Giulietta mi porta una birra offerta con la paghetta e usciamo fuori a sederci sul marciapiede. "E Ibra mi parla spesso di te". Inizia. "Ti ammira perché viaggi e poi sai di musica abbestia e poi".
E poi Giulietta che si apre. E con i lucciconi mi racconta del padre ex calciante. San fredianino. Gestore di una piccola autofficina e di qualche giretto losco. Che non vuole saperne di Ibrahm. “Perché gli extracomunitari hanno rovinato Firenze. Ecco perché”. E io non so più cosa fare. Ho paura di perderlo. Capisci? Arriva Ibra e si siede anche lui e mi guarda e storce la bocca sul mio sguardo. Inizio titubando uno zio. “Non credo che tuo padre odi solo Ibra. Io credo che odi lui come quelli delle Case Minime. I pratesi. Immagino persino gli juventini. Odia perché ha paura. Perché non capisce cosa succede. E si difende attaccando. Odia perché ha la sensazione di essere stato fregato ma non sa da chi. E allora diffida di tutti. Odia perché ha perso. Perché quello che ha sognato non si è realizzato. O forse non l’ha sognato mai. Che mi sembra più vero. Non lo cambierai. È impossibile. Ma tu puoi fare una cosa. Cerca di non essere come lui. Questo si che lo puoi fare”. Poi girandomi verso Ibra che se l’aspetta continuo. “E tu vacci piano a ferire i tuoi. Soprattutto tuo padre. Lo sai benissimo che se tutti i mussulmani fossero come lui il mondo non sarebbe così. Che poi ci stai male. Lo vedo bischero”. E lo abbraccio che si scioglie rassicurato nella mia presa e ci lascia una lacrima una. “Se volete stare insieme scordatevi di scalare questa montagna. Non si può fare. Ma potete fregarla girandoci intorno. Non se ne accorgeranno”.

Finisco la parte dello zio in un silenzio pieno di clacson e mi giuro immediatamente che sarà l’ultima. Mi mette a disagio dover parlare con questi ragazzini e fare il grande. Grande di che poi.
L’out audio dura ancora un attimo che alzo gli occhi e mi ritrovo Giulietta attaccata al collo e mi da un bacione che all’anagrafe mi tiran via dieci anni senza batter ciglio.
È tempo di mollare la presa e tutti i bimbi e tutte ste robe che mi smuovono sentimenti antichi e la finisco allungando un cinquanta a Ibrahm facendoci sopra pure la raccomandazione.
Sto proprio invecchiando.

Mi accompagna per un tratto e mi ringrazia due volte. “Di cosa?” Rispondo. “Bho” fa lui. “Che non sei come loro forse. Con te è tutto così semplice. E per Nero”. Strizzo l’occhio.
Quando oramai sono di spalle mi chiede. “Mau. Come ti sembra Giulietta?” Ah. Finalmente ne fa parola. “Mi sembra a posto. È carina”. Rispondo. “Ma io dell’amore in questo senso non posso dirti granché. Ho sempre fatto cilecca”. Ci sorridiamo come quando il mondo ti sembra x un attimo bello.
E sotto le luci dei lampioni che formano ombre lunghe su una Firenze che anche stanotte si bea di se stessa, mi congedo troppo in fretta da questo ragazzo che ne dovrà passare delle belle nella vita. Temo. Passeggio due minuti per le vie del centro. Via Tornabuoni sfregiata dai negozi di famosi stilisti. E mi scopro a pensare a quei due bimbi. Via Della Vigna Nova sfregiata dai negozi di famosi stilisti. E continuo a pensare a loro. Davanti ad una assurda vetrina D&G mi prende così male che improvvisamente torno indietro e Ibra e Giulietta non si stupiscono nel vedermi che dico: “Vi va di fare due passi?” E mi sorridono e si alzano e prendon su le sigarette e ci incamminiamo lenti sui lungarni. Motivati e rilassati. A respirar leggeri l’aria dell’Arno. Ogni tanto parlando banali. Certe volte dicendo cose che forse rimarranno. A guardarci così come cari amici che si conoscono da anni. Guardandoci meglio come delle persone che stanno cercando di intuire dove sia l’uscita d’emergenza. Dei propri affanni.