giovedì 20 gennaio 2011

Ghost track: Onzeròd






Or quando mi svegliazzo di bus alluzza l’idea che economica s’insinua di rientrar via terra alla base attraversando sei nazioni 26ore di viaggio tutto facile un miraggio.
0ttanta dobloni che corrompono opache resistenze e vinto sui fianchi residuo mi piego e pago lucidi soldoni. Eccepisco l’ottima scelta convincendo me stesso e l’altro me che sarà un gioco da ragazzi. Sarà verso metà viaggio che inizieranno a fumare calati i miei platonici maroni e a capir che sono cazzi.
Vi vedreste che belli siete a vedermi tutto di bagagli ingombranti che m’appropinquo al parcheggio solo ed eremita dove tutto tace no insegne no indicazioni Olanda freddo bestia mai rotto lì coglioni. Di pensilina s’esibiscono informatizzandosi a sbafo in giro tre rom, tre mussu, due negger family e fessi uno. Tra i quali io.
D’attesa spalletta apicello canzoni saccheggiate a casaccio dal mangianastri della memoria vergognandomi di un Renato Zero prima maniera, non vergognandomi di un Vecchioni prima maniera, e stupenza di me stesso apicello quasi abbestia un Tiziano Ferro che ce l’ha con la macchina fotografica che non funziona bene. Gli altri di rimbalzano apicellano fischiettando tribali ed io mi congedo dai nuovi fans senza regalare bis. Oltraggiandoli di camerino.

Staffetto al bar tempi da qualifica rifocillandomi di birre due utili alla copertura di 200keyem.
Controllo tank. Serbatoio bucato.
Abemus panino in plastica sapor di plastica.
Altre due birre bella quattro. E siamo a 400keyem.
E manco siamo partiti ancora.

L’autista che spolacca s’esibisce di sfarzo machista che vede gnocca nera e la fava si fa vera. Italianazza gerghi a casaccio attorando detective alla sbando. Di gnocca tanto s’anebbia che comanda sergente il pulman beccandosi in tredici lingue diverse colpi di demente. Sarà soltanto l’inizio per questo stronzetto prepotente. Aggiotto posti uno siedo e collaudo il wc del bus. Tutto piccolo che manco c’entro ma funge e igenico sta cippa. Si può pisciare. Birre sei.

Primeire le tre ore scorrono placide tra paesaggi piatti eolici altezzosi e grigio or dove vedi quantunque. Situazionistico il flash back della memoria arrembaggia la catena di montaggio di ex arrovellate tra lenzuoli e a pensar determinente ai prossimi voli.
S’abbuia tutto il Belgio che sotto gli occhi passerella senza lasciar traccia o nota e nottambulo infreddolito s’apparecchia il Luxemburgo di sigarette economiche le stecche che fioriscono nel bus in ogni dove. Sigaretto tre di fila e m’abbevero insonnolito. Di odore appesta il bus come una marcia pesca. Roommeggiano maleducati e sbirciano zaini incustoditi i room che il bus tutto s’addombra di sospetto. Poi la Francia che alosanfan ci fermano in autostrada sbirri macchine due e ci appallottolano in una discarica che tutti scendono documenti alla mano e erba in bocca. Di cane sniffatore enfatizzano arresti mai avvenuti che il bus riparte permaloso che vaffanculo te e tutta la Francia che mai più gli spezzerò la lancia.


Quando l’alba s’aggiorna di Svizzera cantoncino fermazzano tre orologi a cucù il pullman che tutti scendono per la rivincita. Terminale inutilmente termina la pratica dei ricercati che tutto il bus ribaltano nello sbigotto totale. Nulla saccio e nulla trovano.
Fratelli l’Italia s’abbraccia d’espresso e sguardi brutti d’italiani in preda all’italiacuta invidiazzando scarpe firmate e culi calati tutti intorno guardano i cazzi d’altri e d’oltralpe. Ignorizzo Milano che il pullman cambia e d’italiano il linguaggio colorisce tutto napoletano. Di Parma è il ricordo gnocca andata. Bologna bel ricordo, poi Firenze, pranzo ultima fermata.

Sbagaglio i bagagli nel deposito bagagli e perdo cellulare uno che tanto piango di numeri internazionali vaporizzati che subito altro compro economizzando trenta euri che il numero ritorna dalla magia dell’operatore che sospiro e chiamo Unica.
Unica che arriva che bella tanto è che la faccia tutta s’imbarazza che stringo forte e bacio che le gambi si fan molli e l’amor torna in agguato. Amor che t’hai perduto. Amore perdonato. Girella la coppiazza di birra dentro il pub dove la trama del racconto si tinge di sguardi troppo lunghi e emozioni che sternano lo sterno in falsetto le parole usciscono come carezze all’arrembaggio pirata mascherato sfilo via e innocenzazzo l’ultimo bacio.

Firenze che tutta d’amici m’accoglie cenazza sbecerazza la notte stanco morto d’ossa dolore passati gli anta è meglio non me ne vanta che al mattino di bus altre due orazze svalicando il monte che alla patria madre di casa si colora il color della memoria.
Lo sguardo fugge attorno di depresse facce affacciate tutte volumizzano ignorando lo squallore ci impegno poco più di poche ore. Mi rifletto di piacevole tormento:
Tra dieci giorni parto per il Sudafrica. Chissà se mai finirà la pacchia che al mortoncino di fame vostro blogger ridacchia rendendo luce a ogni tormento. Ma come sia e comunque andrà.
Che ne dite? Me lo vivo sto momento?

martedì 11 gennaio 2011

Ultimopost



E così Facce Da Olanda è arrivato al suo ultimo post.

Oggi chiudiamo.
C’è un altro “viaggio” che ci vuole portare molto più lontano.
Poi starà a me come sempre meritarmelo nella sua “durata”.
Chiudiamo sì, ma non di certo il blog. Magari ne apriamo un altro o meglio ancora continuiamo con questo.
Che gli voglio bene.
Otto mesi secchi. Storie. Esperienze. Grandi soddisfazioni. Grandi insoddisfazioni. Tanti post. Tanti lettori (per un blogger del caiser come me chiaro).Gente nuova. Tante trombe.
Lo fa’.

Ho guardato le visualizzazioni degli ultimi sei mesi: 871.
A me bastano e avanzano, e devo ammetterlo, m’hanno anche stupito. Ho provato più gusto di quando pubblicavo in carta stampata, dove ad un’alta vendita della copia, hai pochi indizi per capire “chi” ti legge. E cosa pensa. Almeno che non sei Mura o Travaglio, logico.
Ed ho sempre sperato, o forse illuso, che chi bazzica questo blog non sia un/a guardone del web ma persona interessata a leggere, capire, e speriamo sennò non ci divertiamo, dissentire.

Saluto gli amici “olandesi”: Kum, Adi, Roxy, Eve, Masha, Ghino, Reggy, Allard,Annemek, Mario&Andrea (le mie veline), Simone, Alessandro, Salvatore, Diego, Serena (quella nella foto con me ed il premier olandese), Jhonny, i clienti del pub che mi hanno ben accettato, tutti i coffe shop che mi hanno ospitato, e i bravi “coltivatori” olandesi, oramai i migliori del Creato.

Noi invece ci risentiamo presto. Perché qualunque esso sia:
Il Viaggio continua.

Enjoy your trip

martedì 4 gennaio 2011

Malaya (Puttana, in Swahili)




Questo pezzo l'ho scritto in Kenya almeno 4 anni fa.
Seppi via telefono dell'assassinio di una carissima amica che si chiamava Grace
e "faceva la vita". Ho ancora il suo cell in rubrica.
L'ho celebrata anche nel libro che ho scritto sui sette anni giù.
E mai la celebrerò abbastanza. Lei lo ha ispirato.
Con ogni probabilità,  l'avrebbe persino approvato.
E quindi a Lei è dedicato.


Donne di vita. Puttane. Ragazze facili. Prostitute. Mignotte. Maiale. Sgualdrine. Meretrici. Troie. Zoccole. Battone. Concubine. Escort. Bagasce. E via e via.
Quante parole esisteranno per definire queste infermiere dell’anima e del membro nonché ladre astute di quattrini? Ce ne sarà una? Sono una categoria che oramai viaggia a braccetto con le leggende di tutti tempi e di tutte le latitudini.
Pensate che in India. Uno dei paesi più spirituali del mondo. La prostituzione non solo è ampiamente tollerata ma anche quella minorile viene guardata in modo distratto. Sul serio.
In Cina poi. Un amico che lavora là da anni mi racconta sempre con spassosissime mail che da quel punto di vista c’è il meglio del meglio. Mentre il regime chiuderà un occhio e aprirà la cerniera presumo. Nell’ex URSS? A vagonate. A Pietroburgo un italiano sta costruendo interi palazzi solo ed esclusivamente per loro. Certi studi danno la prostituzione e il turismo collegato ad essa una delle entrate principali dei paesi ex comunisti. Dopo le armi. Chiaramente.
Vogliamo poi spostare il nostro dito geografico verso il Sud America? Non so. Il Brasile. Amado ci si è guadagnato l’immortalità a celebrarle nei suoi libri. Solo noi italiani ci lasciamo una finanziaria all’anno.
E non scherzo.
Ed i nostri cugini statunitensi? Son messi di nulla! A leggere i gossip tra gli attori famosi ne arrestano a decine perché li beccano con una di loro in macchina. In macchina! Gente che ha tre mega ville due yacht e il jet privato. Saranno di fuori?
E se buttiamo uno sguardo distratto alla Romania e hai paesi dell’ex Yugoslavia? Saranno numeri da crearci un esercito. E anche lì chi sono i clienti più gettonati? Sempre noi. Gli italiani.
E a questo punto spostiamo il mappamondo verso il Sud Est Asiatico che forse si credeva di farla franca. Thailandia. Vietnam. Cambogia. Filippine. Bali. Son da tutte le parti a occupare qualsiasi lembo di strada.
Persino nei paesi arabi non si scherza. Nel senso che ci sono eccome. L’inizio dello splendido film “Syriana” con il grande Clooney in trenta secondi di sequenze ne da uno spaccato culturale perfetto. Ma loro le cose le fanno all’araba. Di nascosto. Credete che i nostri pseudo inviati di guerra a Bagdad in camera impugnavano una Smith & Wesson aspettando il cigolio del pavimento pronti ad aprire il fuoco? Sè. Puttane e andare.
L’Africa non l’avevo dimenticata. L’avevo semplicemente lasciata per penultima. Da noi se non appartieni al 5% dei ricchi sei una di quelle o lo sei potenzialmente. Viste le opportunità che offre il mercato del lavoro africano. Soprattutto alle donne.
Ma se per un attimo la finiamo di fare gli ipocriti possiamo chiuderla con la nostra vecchia Europa.
Metà delle capitali hanno i quartieri a luci rosse giusto per toglierne un po’ dalla strada. Solo in Italia non si arriva a questa equa e laica conclusione. Che volete. Noi abbiamo quei grandi esperti del Vaticano a dirigerci nelle tortuose strade del sesso mentre continuano a fischiettare facendo finta di non sapere che.
Con queste signore cari miei ci va un italiano su tre!

Ma torniamo a parlar di puttane che è meglio.
Se è il mestiere più antico del mondo ci sarà pure il suo recondito motivo no? E anche se la vogliamo vedere da sopra o da sotto il motivo è sempre lo stesso: perché la domanda è pressoché illimitata. Perché l’uomo nella meretrice trova l’appagamento maschio e la rassicurazione infantile. Trova il coraggio di chiedere e osare. Apre uno spiraglio ai sogni erotici che lo assillano fino a trasformarsi spesso in perversioni criminali. L’uomo si ricorda di essere uomo con loro. E dato che gli uomini non amano le responsabilità. Chi meglio di una donna ad ore per confessare i propri segreti e le proprie fantasie? Per molti sono come delle sexy psicologhe. Delle crocerossine del materasso. Infermiere seducenti dello spirito e della carne.
Il Kenya ma in special modo Malindi non fanno eccezione al teorema. Praticamente qui lo sono un po’ tutte. Anche se molti all’inizio non capiscono bene il perché. Nessuno vuole ammettere che Malindi oramai. Esclusa un’elite che ci vive di rendita. È una delle tante mete di turismo sessuale e poco più. E di certo non tra le migliori. Ed è quindi normale e logico che girino un sacco di prostitute. Credono che siano lì perché gli piace. Perché è il lavoro più facile e redditizio. Perché son tutte delle gran gnocche e dentro son pure delle gran puttane. Ma la realtà non è sempre così come sembra.
A voler cercare di scavare un po’ nella vita di queste ragazze si possono scoprire verità spiazzanti. Molte di loro sono incoraggiate dalla famiglia a farlo. Le incoraggiano pure con le botte se non sono tanto sicure di volerlo fare. Spinte da qualche fratello avido o mamma disperata in una realtà per loro completamente nuova. Così in town capita spesso di incontrare giovanissime spaesate con un misero vestitino corto di terza mano. Parlano poco inglese e temono tutto. All’inizio sono prede facili per gli attempati avvoltoi italiani che ci planano sopra senza censura ma poi cominciano a svegliarsi e ad alzare il prezzo un po’ arroganti. Per questo dopo tre mesi le re incontri che c’hanno l’ultimo modello del Motorola e le scarpe firmate e ciao belo come stare? E gli italiani ti sussurrano astiosi visto che era una gran puttana? Cioè. Veniamo in un paese povero e ci prendiamo le loro ragazze più belle spesso con due lire. Ci facciamo i nostri comodi sempre pronti a scambiarla con una più fresca. Gli diamo pure delle puttane. E ci stupiamo poi se scopriamo che le bimbe si sono svegliate e gli stiamo anche un tantino sulle balle. Stranalavita.

Questo tipo di ragazza qua non sognava i soldi. Almeno all’inizio. Sognava il muzungu che la sposava e la portava in Italia a fare la bella vita. Ma tutto a grandi linee. Non hanno una cognizione oggettiva e reale di cos’è davvero l’Italia. Le più credono che siamo tutti ricchi felici e spensierati. Come quei cialtroncelli da 5mila euro al giorno che giocano annoiati al casinò o come quei turisti da due settimane all inclusive che arrivano qua con 2mila euro in tasca a fare gli sboroni raccontandogli delle palle da vergognarsi del tricolore.
E a poco servono le esperienze di molte che son partite emozionantissime e convinte di aver svoltato per rivederle poi tornare dopo sei mesi con i visi lunghi quando scoprono che la televisione e il calcio e ingozzarsi a tavola sono il nostro senso primario della vita.
Purtroppo cadono spesso nella ragnatela droga. Molte fumano eroina e se hanno baget bevono birre e gin tonic in sequenza. Serve come tranquillante. Come anestetico. Per non ricordare al mattino quel trippone viscido e le sue richieste da porco. L’avvocato che vuole essere sodomizzato. L’industrialotto che paga bene ma vuole tutto. Ma proprio tutto. Spesso per dimenticare che la loro vita gli è sfuggita di mano. Con ogni probabilità per sempre. E al di là dei facili giudizi censori tanto cari a noi italiani personalmente non me la sento di puntarci troppo il dito contro.
Se vedeste con che gente devono andare a letto vi droghereste anche voi.

La casta delle splendide e fresche e benestanti è una piccola comunità mutevole come e con gli eventi. Ma è quella più chiacchierata ed invidiata. Solitamente si tratta di ragazze bellissime con un passato da modella o da Miss che optano per una vita più agiata.
Individuano un muzungu magari un po’ datato e con il grano vero e se lo lavorano a puntino. Sesso sfrenato e fedeltà. Perché quelle furbe lo sanno bene che l’italiano è geloso in maniera ossessiva e l’assecondano facendogli le corna tra mille sotterfugi e di nascosto. Senza far piazzate per discoteche come fanno le altre. Il più classico. Appena si sono sistemate comode in qualche villa a farsi chiamare Madame da un plotone di servitù fanno assumere il fidanzato africano come giardiniere spacciandolo per un lontano cugino bisognoso. Nel giro di poco tempo gli farà avere la patente e l’uso dell’auto di casa e i soldini veri in tasca. E la cosa più bella è che il commendatore non si accorgerà di nulla. Con ogni probabilità prenderà pure in simpatia questo ragazzo africano sempre sorridente e servizievole. Le cose andranno bene finché gireranno soldi. Se per caso il vento inizia a cambiare e il commenda incomincia ad avere il fiato corto in banca. La bimba si prenderà un avvocato avido e senza scrupoli e recitando la parte della povera ragazza indifesa e sfruttata porterà via al nostro villa jeep e gli ultimi soldini buoni. In un batter d’occhio. Ci sono decine di storie così in costa. Anche se certe volte dalle nostre parti. Aldilà che si chiamano mogli. Eh?

Poi ci sono quelle cattive. Di professione. Che intenzionalmente sanno ancor prima di uscire che se troveranno un muzungu gli faranno passare dei guai.Dopo un po’ le riconosci dalla luce che si nasconde dietro quello sguardo da falsa gazzella.
Li studiano cercando il punto debole. Accuratamente evitano di parlare di tariffe. Così al mattino possono chiedere qualsiasi cifra altrimenti ti porto in polizia. Ma i modi sono infiniti. Giorni fa gli sbirri d’accordo con la bimba hanno arrestato un italiano in una discoteca perché stavano facendo sesso nel bagno. Lui si è giustificato dicendo ma lei mi ha detto che qui è permesso! Roba da pazzi. In Kenya anche se ce n’è tanta la prostituzione è persino illegale.
L’hanno tenuto dentro due ore giusto per farlo tremare un po’ e poi gli hanno sfilato un 400 euro. Con inclusa la percentuale per la bimba.
Poi ci sono quelle che si fanno portare dai turisti freschi dentro i villaggi residenziali parodiando le gattine. Ma dopo neanche mezz’ora iniziano a tirare fuori strane scuse perché vogliono andarsene. Lui lì per lì non capisce ma appena lei strappa una tenda e si mette a urlare reclamando i suoi soldi di solito viene liquidata dal tonno di turno con fare impaurito e repentino. E in neanche un’ora si porta a casa l’equivalente di una nottata a faticare. Non male no?

Come avrete intuito sto dalla loro parte. E non per quanto riguarda il materasso anche se ne vale più che la pena. Ma perché mi piace interpretare le loro emozioni e codificare le loro paure. Controbattere alle loro certezze e ridere delle loro bugie. Perché le trovo interessanti ed originali. Perché mi sento più a mio agio a parlare con una puttana che mi racconta senza retorica la sua storia che a parlare con un italiano ipocrita che ha rubato soldi allo Stato per tutta la vita e qua passa da gran furbone.
E poi. È scritto che Gesù ci andava in giro a braccetto tra la gente. Buddha e San Francesco c’hanno passato insieme metà della loro vita prima di mettersi a fare i bravi. I più grandi poeti del mondo le hanno immortalate con versi bellissimi. Gli hanno dedicato canzoni meravigliose autori come Fossati e De Andrè.
Potrà parlarne bene anche un bischero come me?

Mad(e) in Kenya. Racconti dai sobborghi dell'East Africa.

Piumetta



Questo racconto è nato un anno fa dopo un posto di blocco dove me l'hanno menata troppo.
L'ispirazione è partita da lì. Piumetta come personaggio, ce l'avevo già in mente.
Ho cercato di usare una scrittura che fosse quasi in prosa  senza retorica.
Se sono riuscito nell'intento, giudicatelo voi.
Buona lettura.



Se Piumetta quel giorno avesse adunato intorno a sè il coraggio perduto/ritrovato e narrato in mille storie d’amore e cento poemi oggi non saremmo qui a parlarne. Non avremmo a sorridere di certi buffi aneddoti ne a fermar con un singhiozzo lacrime che cercano acerbe una collocazione.
Non staremmo qui a disquisir sui parenti. Ne a sparar giudizi dozzinali. Che poi finiam d’esser noi quelli che strisciano mentre gli diamo pure dei serpenti. Proprio tutti. Artigiani concubine e tenenti. Perché se Piumetta lo voleva davvero quel che voleva non ha fatto il muso duro e se l’è preso? Si chiesero i più quando a frittata fatta si passò dritti a vergar lutti su anonimi verbali tralasciando di tutta questa storia il senso esteso? Perché non ha fatto spalluccia alle malelingue ed è andata diritta per la sua strada con quello scemo? C’era davvero bisogno di un gesto così estremo?

Ci rimasero spiazzati tutti. Quasi come quando la videro tirar su il bandone del suo frutta e verdura la prima volta. Proprio nel centro del paese. Che all’inizio e ancor più dopo quando la gente osservava passando quei cento chili di carne morbida con quelle labbra carnose cantare ben intonata le canzoni del suo gruppo preferito, si voltava a guardarla e i maschi a farci sopra pensieri poco altolocati che sapevan di peccati alla melassa. Nacque in quei giorni lì quel nomignolo che si sarebbe portata dietro sino agli annunci mortuari. Uno disse ridendo: “E’ così grassa ma si muove come una piuma”. E per tutti diventò Piumetta.

Che a Piumetta piaceva il sesso più che mangiare ed era tutto dire. Le piacevano le parole un po’ sboccate e lavorarsi gli uomini e piegarli al suo volere con quelle labbra voluttuose ed esperte. Che poi a sindacar non si capiva mai bene, se lo faceva per buttarsi via o per godersela o per fare un carezza alle sue pene. Perché a Piumetta si poteva dar di tutto ma non della zoccola. Teorizzava l’ingegner Mantovani. Grande trombè de femme. Come lo definì in un francese azzardato il Tanzi che da quando votava commenda si era messo pure a parlar fino. Spiegando e un pò ammiccando all’auditorio di pensionati che quella lì: “C’ha la lallera in fibrillazione. Il segreto è tutto qua.” Ma lo diceva senza voler offendere o con un tono di volgarità. Che anche a lui la Piumetta attizzava. Ma da quando ci si era messo in mezzo il maresciallo la cosa era diventata pericolosa.

Che poi a Piumetta, cosa strana, l’adoravano pure le mamme e le donne per non dire le nonne. Che conosceva delle fantastiche ricette di cui svelava i segreti senza gelosia e poi quelle battute svelte e sarcastiche sugli uomini mentre con qualche frutto o verdura in mano alludeva facendole ridere tutte di gusto. Che Piumetta c’aveva pure i prezzi buoni. E sapeva mestierante trasformar cassette piene di merce in lucidi dobloni. E così andava a finir che gli chiedevano pure i consigli. Come la moglie del Romeo. Piumetta scusa. Le chiese a negozio vuoto sottovoce e un po’ impacciata. Tu sei così brava con gli uomini che. Cioè. Vedi io e mio marito. Insomma. Non è che. Vabbè ho capito. Tagliò corto Piumetta. Non lo fate più. È così? Francesca arrossendo annuì. Senti un po’. Ma glieli fai i servizietti? le chiese ridendo obliqua. La Francy diventò come un pomodoro. Ma sei matta? Sobbalzò con un senso di colpa ereditato a catechismo. Ecco fatti un piacere. Inizia da lì. Vedrai che le cose cambieranno. Agli uomini piacciono le donne un po’ porcelle! Concluse allungandogli la borsa della spesa e strizzando l’occhio complice.

Francesca uscì dal negozio ancora arrossita ed imbarazzata ma quella sera dopo la doccia si piazzò davanti allo specchio e selezionò delle cosette sexy. Ravanò tra i profumi mignon e seguì pure il suo consiglio. C’erano due figli in ballo e lei con tutta una vita selezionata per loro fin su al suo matrimonio. E si ricordò di essere -oltre che mamma casalinga e moglie- ancora una bella femmina. Fu un successone. Da quel giorno il Romeo smise di andar a cercar furtivo nei dopocena la Piumetta ben attrezzato e con la promessa di un week-end a Parigi insieme. Fu invece la Francesca che proprio da Parigi, dove un mese dopo con il marito andò a “far la seconda luna di miele”, che le spedì una cartolina con la Torre e su scritto un bel grazie dentro un cuore disegnato. Quando l’appuntò insieme alle altre fissando un pò imbarazzata l’icona di Padre Pio, della cui figura era grande sostenitrice, con il rametto d’ulivo immortalato proprio sopra la cassa le confessò candida: “C’hai ragione a guardarmi così. Ma quando quello mi metteva le mani addosso non capivo più nulla!”. Facendola franca anche con i santi.
Poi ogni tanto a Piumetta la sera veniva il magone.
Poi più spesso Piumetta la notte seduta sul letto che aspettava le ore.



                                    (Vorrei uscire stanotte/dimenticare il tuo nome)



“Marescià. Dice sua moglie che si ricordasse il pane“. Riportò asettico l’appuntato Rocco al superiore seduto in quella scrivania anonima come le imprese che non c’erano da raccontare. Con la foto del presidente e un ritaglio di giornale ingiallito che incorniciava un vecchio e minuscolo successo a proposito di autoradio rubate nel bergamasco ancor lontano da esser padano. Roba di vent’anni fa e poi. Che da quando il maresciallo Raffaele Greco. In arte Don Raffaè. Si era infatuato della Piumetta non ci si parlava più. “Dì a mia moglie che si fottesse!” Urlò alzando gli occhi da una richiesta di passaporto aggiungendo un po’ imbarazzato quando l’appuntato si allontanava: “Stavo scherzando Rocco! Fatti lì fatti tuoi!”.

Don Raffaè era un ex ‘uagliò venuto da Napoli. Per toglier subito di mezzo i dubbi e metterli al sicuro in banca. Cresciuto in uno di quei quartieri dov'è difficile farla franca. Con la panza da carboidrati a valanga ed un odore che sapeva di acido. Bruttoccio diciamolo. Fin quando con quello sguardo da impunito fissava i passanti come a voler intendere che infrazione avessero appena combinato. Stava sulle scatole un po’ a tutti. Affermavano sottovoce le comari nel negozio della Piumetta a gioco ultimato.

Che poi tutto nacque quella volta che la Piumetta gli offrì un servizietto veloce nella jeep di pacca. Una fatica più perché la eccitava veder una divisa aperta ansimante che non dettava inquisizioni o timori o che altro. Che anche a lei Don Raffaè non piaceva per niente. Era sboccato e approfittava della sua posizione. Ed era pure brutto. Dai diciamocelo. Ed aveva stufato davvero tutti quando tiriterava che da giovane era stato uno di quelli che, citando Mario Merola, doveva scegliere se diventare camorrista o carabiniere. E andava a finir che se la menava con questa storia, i più pensavano senza dirlo che di sicuro aveva sbagliato mestiere.

Per lei fu una leggerezza ma lui invece la prese dura. Solo perchè per un attimo si sentì da mezz’uomo trasformato in un adone. Anche e soprattutto perché aveva travisato l’obbiettivo reale di quel gesto. Che sintetizzava sia l’arroganza sia quanto fosse farfallone.
“Rocco prendi la jeep che andiamo in paese a controllare“. Ordinava all’appuntato che sapeva già che si sarebbero poi piazzati davanti al negozio della Piumetta per verificare il movimento.
La sera a cena Rocco abbassando la televisione confessò le sue preoccupazioni alla moglie Carmela quando i figli era già a letto. “Carmè. U’ maresciallo sta uscendo pazzo“. Lasciando scivolare la conversazione verso faccende scomode.

Quando entrò per la prima volta nel negozio della Piumetta a comprare agli e vino rosso a buon mercato Adrian, che giù al cantiere tutti lo canzonavano Mutu in onore al calciatore del quale non aveva di certo il profilo sorvolando sul conto corrente, se ne innamorò immediatamente. Non che pensasse al sesso tutt’altro. Forse e alla fine in quella donnona rassicurante vedeva più la mamma. Un senso di morbida protezione. Era un po’ grassotto e ben stempiato. Un romeno anonimo e spento e distante che prima o poi ti passa davanti agl’occhi. Non aveva una buona parlantina ed era pure timido. Il fatto poi che bevesse robusto invece di sciogliergli la lingua lo bloccava ancora di più. E finiva così sempre ubriaco a cercare tra i ricordi quei due o tre che sapevano un po’ di buono cullandosi su fotogrammi dai colori pallidi della famiglia e del suo piccolo paese al nord della Romania dal quale era scappato dopo un matrimonio finito male.
La Piumetta provava una grande tenerezza per quel ragazzotto timido e impacciato che raramente alzava lo sguardo da terra. Sorridendo tra sé gli veniva istintiva di proteggerlo come un figlio. E gli piaceva trastullarsi due minuti con lui e infilargli a conto fatto qualche verdura extra nella sportina della spesa.
Poi quel pomeriggio di vicino Natale entrando in bottega dopo aver scolato una bottiglia di rhum importante con gli amici Adrian le pronunciò due parole che cambiarono le bisettrici della sua vita. Due parole che avrebbero portato venti di incomprensioni e tempesta. Gli sussurrò due parole che nessuno le aveva mai dichiarato prima. Gli disse: “Sei bellissima“.
Piumetta arrossì insieme a lui anche se non era sua abitudine e si sistemò la ciocca civetta dietro l’orecchio.
Il maresciallo osservando tutto dalla penombra del parcheggiò sibilò ad un appuntato che non sapeva più dove guardare: “A chisti ‘i fotto“.

E ce la mise tutta Don Raffaè. Iniziò nello sguinzagliare sua moglie in giro a parlar male della Piumetta che anche se tutti conoscevano la storia qualche vipera sua pari l’avrebbe sicuramente trovata. E donna Concetta, che aveva già inteso avvisaglie losche nell’aria da vecchia donna del sud dimessa con un’acidità indirizzata verso l’obbiettivo sbagliato, Quasi con un senso di inutile rivincita., Si dette ben daffare.
Ed anche per Adrian le cose non si misero affatto bene. Anzi con lui fu tutto molto semplice. Una pendenza per uno scooter rubato anni prima nella periferia romana. Quella scazzottata con due albanesi che gli costò una denuncia per rissa e otto punti di sutura. Insomma. Uno con le sue piccole colpe che a guardar bene non si distinguevano molto dalle piccole colpe che ognuno di noi si porta dietro in una vita. Ma a differenza delle nostre. Lui le sue le pagò fino all’ultima stilla.
Lo fermò persino una sera nei giardini pubblici umiliandolo davanti a tutti perquisendolo. Sibilando poi ai passanti intimoriti che quello è uno spacciatore ed è pericoloso. Anche se Adrian odiava la droga e i drogati. “E poi che minchia ci faceva tutte le sere nel negozio della Piumetta? Non è che?“. Spargendo il germe del dubbio dette il meglio di sé. Don Raffaè.

Cambiò la vita di Piumetta e di Adrian ma cambiò anche quella del paese credetemi. Una coltre di stoltezza iniziò a coinvolgere invisibile ma decisa un po’ tutti. Si partì nei bar a straparlar gratis e male. Dalle briscole all’’asso di bastoni si passò dritti a far battutacce da stucchevoli cafoni. Intorno a quello schiocco confessionale le voci al curaro delle tossiche da tre funzioni al giorno rimbalzarono acide ed inquisitorie protette dalle antiche pietre della chiesa. Persino l’ingegnere affermava che si era passato il limite. Donna Concetta comiziava e dispensava oramai ad un plotone di casalinghe represse parole piene di disgusto moralista verso la Piumetta che almeno all’iniziò incassò quegli affondi come un pugile rintronato stretto alle corde. Fino al giorno in cui seppe che Adrian era stato arrestato. Giusto fino a lì.
Don Raffaè l’aveva trovato ubriaco su una panchina e lo aveva portato dentro in manette quando si era permesso di apostrofarlo con un chiaro stronzo all’ennesima richiesta dei documenti.
Ecco. Le cose iniziarono a precipitare proprio da quel preciso momento.

Non perché il lavoro di due anni era andato a puttane in due settimane no.
Non perché persone che fino al giorno prima la salutavano solari adesso la guardavano come la fonte di tutti i mali no. Con ogni probabilità si scollò inconsapevole dalla bieca realtà.
Chissà se sentì improvvisa la pesantezza del vivere e ne ebbe timore.
O forse guardando quei cento chili allo specchio vide per la prima volta quei cento chili che aveva sempre nascosto ai suoi occhi.
Ci fa più sollievo pensare che percepì il suo gesto come un obolo supremo e necessario all’amore che non si può consumare.
Non lo sappiamo che cazzo successe diciamocelo.
Ma il giorno dopo Piumetta non aprì il negozio. E neanche il giorno dopo. E neanche quello dopo ancora. Quando la Francesca preoccupata andò con il Romeo a casa a cercarla e trovarono la porta aperta e le stanze vuote scattò l’allarme.
Troppo tardi.

La ritrovarono due fungaglioli che salivano su per quell’anonima pinetina di un sabato mattina dal sole generoso.
I referti dissero poi che era rimasta appesa a quell’inconsapevole ramo almeno un giorno.
Appena la notizia travolse i pettegolezzi sul paese calò un silenzio pieno di vergogna e disagio. Tardivo ed inutile. L’ipocrisia del viver solo di facciata criticando la vita di chi invece ci prova davvero a vivere dietro quella patetica facciata aveva vinto ancora. Per l’ennesima volta.

Quando il dottor Germi arrivò nella collinetta, Don Raffaè era piazzato impresario sulla cima ad osservare capo branco il via vai operativo. “Che è successo maresciallo?” Gli chiese tra barellieri e sbirri incuriositi e borghesi dalle curiosità incancreniti. “Che è successo dottò. Si è suicidata“. Borbottò lanciando un calcio ad un sasso che ostruiva il suo nobile passo. Poi su quella frazione di silenzio aggiunse sistemando la cinta in abbondanza sul pantalone d’ordinanza.: “Comunque. Quel che è stato è stato. Finiamola qua ‘sta sceneggiata“. E stringendogli il braccio e allontanandolo dalla folla di presenti sommò in un napoletano sprezzante ghiacciandolo: “E poi dottò. Pè mè ‘na femmena italiana che s’amazza pè nù romeno se l’è solo cercata“.

                                      (E crolla la fortezza/Del mio debole per te)

sabato 1 gennaio 2011

Barman



Questa storia nasce dalle mie esperienze di barman a Firenze. Dove da "dietro il bancone" ne ho viste di tutti colori. Con tanto "senno di poi", il  trans c'è l'ho infilato molto prima che il caso Marazzo le sdoganasse e perchè intorno al 2000 con "ste bimbe qua", ne vidi di tutte, nella Firenze che si scopriva  transessuale.
Buona lettura.

Gli aperitivisti dal gomito infiammato affermavano unisoni che il Marcellino era l’unico barman che sapeva miscelare un Negroni con i terzi esatti e dargli il tocco giusto d’angostura e star fino con l’arancia che lì sbagliavan sempre tutti. E poi era stato lui che aveva raccontato unico la storia di com’era nato. Che il mitico conte Negroni. Figura leggendaria in quel di Firenze di ritorno da un viaggio di piacere negli States. Iniziò ad ordinare il classico e già famoso Americano con la variante gin al posto del selz. Si tramanda che il barman del Giocosa -il Bar di Firenze- un giorno lo avvicinò rispettoso e gli domandò Dottore. Tutti mi stanno ordinando l’aperitivo come quello del Conte. Avrei pensato onorandola di chiamarlo con il suo nome. Se a lei non disturba chiaramente. Il Conte annuì impeccabilmente vestito e da quel giorno e via e via.

Era pure eccelso nell’Americano stesso che teneva giusto un po’ più alto di Campari che tanto piaceva alle ragazze dal sorriso e la scollatura generosa e non faceva mai il furbo con il selz. Che certi bar senza lode te lo riempiono di soda e poco più e ti tiran via 5 euro. Se poi ordinavi un cocktail Martini extra dry andava di competenza e gesti giusti e minimali. Tre gocce di vermouth per insaporire il ghiaccio e via di strainer tutto con cura. Dodici cl di gin rigorosamente Tanquirai e chiamalo pure aperitivo pensava tra sé. Una botta di burbero distillato prima di andare a tavola non era esattamente la cosa più adatta. Che poi lo sa perché si chiama Martini? Domandava all’avvocato che il sabato passava per il rituale dell’aperitivo concedendosi una mezz’ora da (in)esperto di cocktail. Non c’entra niente la Martini azienda. Anche se hanno avuto un bel culo con questa storia. Si chiama così dal nome del barman che lo creò. Un messicano di nome Martinez. Infatti se vede la composizione è praticamente tutto gin ed i codici di miscelazione parlano di vermouth. Non Martini. Concludeva strizzando l’occhio e la scorza di limone per il tocco finale. Quante ne saprà il Marcellino eh! domandava l’avvocato celebrandolo in giro tra i presenti.

Era proprio vero. Ci sapeva fare il nostro Marcellino. Non perché nel suo lavoro vedesse qualcosa di un po’ mistico e trascendentale che aveva notato esibito da certi colleghi di chiara fama durante gli stage della Bacardi no. E neanche perché la gente paga ed è giusto darglielo. Lui quando aveva le bottiglie in mano sapeva sempre “quando era il momento giusto”. Confidava ai pochi intimi tra bevute competenti senza mai tirarsela. Appena stringeva quei vetri tra le dita entrava come in sintonia con i loro contenuti. Le loro storie di distillo fermento e stagionatura. E ne diventava complice e messo.

Perché il Marcellino se voleva adesso era a New York. Sosteneva qualcuno. Ma era nel bar di famiglia che era cresciuto e in qualche maniera si sentiva barman solo lì. Nella vecchia pedana che avevano calpestato il babbo e la mamma per anni. Aveva rifatto il trucco al bar con un gusto sobrio e quel crema mai stizzito da certi tocchi di pastello rosa che all’inizio sembrò così poi invece a star seduto scoprivi che rilassava. Rinnovò i tavoli di un faggio essenziale e misurato meritandosi una postazione american bar da far invidia ai migliori di Firenze. Le foto in macro seppia che celebravano uno dei mestieri più antichi del mondo con su ritagli di lavoro appese nelle prospettive giuste. Ma la Faemina da due gruppi che l’espresso suo era tra i migliori e la pedana giusto scartata e trattata rimasero al loro posto. Si devono riconoscere i segni del tempo e sapergli dare onore e riconoscenza. Si ricordava tra sé quando tirava giù qualche tot di grappa barricata e rivedeva suo padre che gli insegnava a fare i cappuccini e gira questa manopola qui che attiva il vapore e stai attento a farlo roteare bene. Che il latte non deve bollire ma mussare. Ricordatelo. La differenza è tutta lì.



Il giovedì era chiusura per turno ed era il giorno che il Marcellino si toglieva la maschera lontano da tutti e si spostava in città per gli acquisti. Ad impreziosir la sua cambusa di etichette di vermouth Carpano e cognac Remy Martin e tequila Sauza Reposade. Per la quale aveva un debole che persino il suo fegato iniziava a detestare. Quattro set di scotch scelti a modo e due di barbon più classici. Che il Jack è sempre il Jack e si vende bene. Anche se lui lo trovava troppo ruvido e scomposto. E intimamente pensava che quel barbon lì più probabilmente doveva la sua fortuna a gente come Belushi e Keith Richard. E molta meno a cantinieri esperti enfatizzati dagli spot. A sostener degustazioni a largo raggio con venditori che nel Marcellino riconoscevano il cavallo di razza e che omaggiavano di costosi assaggi attenti alle sue considerazioni e critiche. A ricomporre le batterie di bicchieri. Dieci Old Fashioned e due da sei di Tumbler medi. Che i ragazzi al bar ne rompevano uno scatolone a settimana. Qualche accessorio per decorare e pagamenti lunghi e ben distesi. Che il Marcellino era cliente cinque stelle e andava accontentato. Poi relax su aperitivi spesi nei bar del Lungarno che visto seduto da lì ti illude immobile. Osservando come ipnotizzato la storia che trasuda discreta da Ponte Vecchio. Ad aspettar la bimba.



Ciaooo amore mio! La voce stridula ed abbondante della Giulia lo riportò sulla terra mentre inseguiva flash back dell’infanzia sparati dalla memoria in ordine sparso con l’airone che svolazzando tra i tavoli seminava sguardi allo sbando. Azz com’è vestita. Realizzò ricomponendosi. Con quel tovagliolo ceruleo Prada che fasciava un culo biz class. La maglietta last minute dei D&G che esaltava un seno fiero ed eccessivo. Due grattacieli al posto dei tacchi su collant appariscenti e costosi. E poi il viso della Giulia. Occhi verdi di taglio orientale. Naso alla luna e due labbra così. Capelli neri lunghi adescati dal parrucchiere ogni giorno. Gli zigomi discretamente perfetti. Sembrava cesellata di bisturi. Sorrise tra sé.

Poi con la Giulia a desinar nel ristorante rinomato di splendida veduta affacciato. Battute svelte e complicità. E portate e vino buono. E Marcello bevi troppo! E Giulia almeno tu! E allora garçon! una bottiglia di Solaia! Scialacquando un’ordinazione con battuta che lasciò uno sfregio nella sua carta di credito che si risarcì tre mesi dopo e risate con la Giulia a dissacrar per un momento la vita ordinaria. Poi con la Giulia a perdersi in quel letto d’albergo di camera stretta. Pagando un extra in lenzuola di seta per muoversi in fretta. A cercar in quel corpo e nei suoi morbidi baci un oblio che lo portasse lontano dalla stupida facciata di quella stupida movida che è la vita. Con la sua voce che a volte cambiava ambigua e che lo scivolava in quella lussuria proibita che almeno per una notte anestetizzava le sue paure e le sue debol/incertezze. E con quell’occhiate che si perdevano in sguardi che lo sorpassavano arrivando a sfogliarne il segreto fondo. Dove solo lei sapeva approdare e far crollare le barricate fino a tradurre il suo vero mondo.

Poi con la sigaretta tra le labbra e le carezze lente della Giulia a ritornare nella bieca sfera degli onnivori controvoglia. Con la Giulia che lo sfiorava al mattino quasi percependo il baratro dove stava camminando fin anche cadendo. Come/meglio di una donna. Perché sarà pure cara. Sarà pure eccessiva. Sarà pure matta. Pensava un po’ confuso ma rilassato lungo le curve del rientro in un carteggio di immagini che protocolla a se stesso le riverenze.  Ma la Giulia rimaneva il più bel trans di Firenze.



Ci sei andato? La voce della Debby lo distolse da quel macchiato che stava preparando un po’ distante. Marcello la guardò scocciato. Dove dovevo andare sorellina? Rispose deciso con un sorriso poco convinto e non condiviso. Lo sai bene dove dovevi andare. Aggiunse lei con far di mamma preoccupata. Senti un po’ sorellina. La devi smettere con questa storia. Guardami! Ti sembra che abbia dei problemi? Si. Ribatté d’impulso lei. Anche se per adesso riesci a mascherarli. Ma fino a quando Marcello. Fino a quando? Concluse girando i tacci ed andandosene strisciando via dal bar che li guardava un po’ imbarazzati. Con tre clienti confusi che sfogliavano inutili quotidiani di brioche impacciati e curiosi in mezzo a the liofilizzati.

Marco glielo ripeteva all’infinito. Guarda che sei tu quella che ci rimette il fegato non lui. Ricordatelo. Che Marco gli voleva bene davvero alla Debby. Che a 23anni lavorava nel sociale con passione e competenza e delle tossicodipendenze ne aveva fatto intreccio di vita. Lascia perdere. È grande. Insisteva lui. Ma quale grande Marco. Ma lo vedi che recita un copione che non potrà durare ancora per molto. Non lo vedi? Singhiozzava stringendosi tra le sue braccia di muratore temprato.

Lo vedeva eccome Marco quando passava dal bar. Di come scivolava in tutti quei gottini di tutto dispensando indisturbato battute efficaci e commenti calcistici competenti. Ma il Marcellino era quello lì. Lui per primo non ne vedeva un altro anche quando cercava di scrutare l’androne del suo anelito tormentato. Ma si sbagliava. Come tutti. A parte la Debby. Chiaramente.

Quella notte Marcello si ritrovò prigioniero di un brutto sogno.
Eran ragni marcantoni che lo inseguivano nel mezzo di una gigantesca tela che non trovava conclusioni. Con un contorno di visi e refrain di vite passate che parlavano barbaro e deserti e strane pedonali costellazioni. E lui legato ad una grande Croce a inseguire le sue lisergiche allucinazioni che fu un brutto sogno di orchi e fate sgualcite e nani brutti che giudicavano le sue azioni. Quando si svegliò completamente sudato con su un odore sgraziato pianse nel buio della stanza. Pianse sui resti della sua anima terremotata. Pianse come uno che aveva capito di essere arrivato all’ultima fermata.

Stranì in quei giorni Marcello. Se ne accorsero i clienti tutti e se ne preoccupò la Debby. E quando arrivò il giovedì di chiusura partì per la city ma non si presentò a far le solite spese ne a deglutir le degustazioni ed anzi andò di caffè e cioccolata amara. Ed evitò di rispondere alle telefonate incalzanti della Giulia che lo inseguivano vos di sirena mascherate dietro rasoi affilati e Chanelle n°5 comprato bello mio nella profumeria più cara.
Camminò per un po’ lungo le strade piene di storia del centro scecherando quel biglietto tra le mani che sua sorella gli aveva allungato tempo prima. Cercando finto/distratto di sbagliare la strada/rima. Arrivato di fronte ad un antico portone consumato dal tempo esitò un attimo e poi suonando al pian terreno entrò guardingo ma a vederlo rilassato. Si ritrovò in una stanza eccessiva dove una decina di sedie messe in cerchio smorzavano lo spazio poco illuminato. Come a dar l’idea di un peccato che non avrà fine perché non è mai iniziato. Salutò tutte quelle persone che erano sedute. Alcune un po’ spente. Altre più avanti nel gioco che sembravan contente.
E stupendosi ancor prima di sedersi chiese la parola e riconobbe quello che non aveva mai avuto il coraggio di confessare persino a se stesso. Avendo sempre reinserito sbadato quel problema tra gli ultimi della sua lunga lista.
Disse mi chiamo Marcello. E sono un’alcolista.