domenica 16 dicembre 2018

La Straordinaria Vita Di Un Coglione Qualunque #1



capitolo uno

"Della nascita e altre nefandezze"

Quando nacqui non ci fu nessun squillo di tromba degno di pentagramma ma solo qualche nuvola distratta che bivaccava anonima in un cielo di maggio appannato che si ripiegava inutilmente orgoglioso su stesso come chi non ha più niente da perdere. Una normale giornata del cazzo, sia detto.
E nacqui pure cuspide che è una roba che mi ha messo di traverso alla Vita da subito, per principio.
Fu una normale giornata del cazzo per me e per voi però, perchè invece gli Dei da monti e da riviera, il pattern sublimale dell'Universo Sconosciuto, l'élite dei Rettiliani, le congiunzioni astrali da destra a manca, Shiva - che in quei giorni c'aveva le sue cose e finiva che ci discutevi per un niente - gli apostoli tutti meno uno che fu interrogato poi in merito e con perizia, Manitù che era là sopra che scrollava la testa perplesso e dicon pure l'arbitro cornuto, oltre che ad essere stati avvisati e messi abbondantemente in stato di eccitazione dagli urli strazianti di mia madre, eran tutti lì belli motivati per apparecchiarmi un'entrata in questa nuova Esistenza che doveva essere conio e summa di quello che mi sarebbe poi successo nei lustri a venire.
Fu un successone.
“Un parto così di merda non si vedeva dai tempi del Pleistocene”.
Ebbe a sentenziare poi sottovoce la Tina, ostetrica da oltre un trentennio, che al mio paesello negli anni '60 contava più di tutto il centro sinistra oggi messo insieme. E per tirarmi fuori da lì quasi vivo faticò in maniera desueta e boscaiola, si espose scomposta e a volte sudereccia, che era una roba non contemplata nel prontuario del suo ecclesiastico stile, e forse per la prima volta nella sua democristiana vita e con somma gioia dei più, affabulante bestemmiatrice.
Ma in qualche modo ce la fece.
Anche se fu un dannato lavoro sporco. Va detto.
Intanto, dato che il cordone ombelicale mi si era arrotolato intorno alla gola fino quasi a soffocarmi, ero diventato nero come un Masai di lungo corso. Poi, dato che il medesimo impediva l'estrazione spontanea e naturale della testata nucleare, si aiutò con un forcipe.
Tirò con metodo e sicumera esperienza, testimoniano ancora oggi i presenti sopravvissuti, e contro ogni previsione riuscì nel nobile intento di salvarmi.
Va da se che non solo ero tutto nero, ma anche il mio neonato cranio di burro partecipò al banchetto e si era allungato in maniera esacerbante.
Ho visto una sola foto di straforo di quello scempio estetico e devo dire che ero davvero tanta roba.
Modigliani avrebbe sentenziato che sembravo un quadro di Picasso del periodo guarda che l'hai appeso all'incontrario ridendosela divertito, anche se fondamentalmente, senza scomodarvi con scaltri paragoni, che manco li avete capiti fino in fondo, la mia testa sembrava un'enorme pera.
Come da frutto e pure da foto.
E, va da sé, brutta come il peccato originale.

Piccola botta di culo volle che la Tina, mossa da compassione e con la tigna che caratterizza le azioni dei vincenti, mise in atto una tattica rurale e minimalista che di lì a un mese partorì -senza doglie stavolta- ottimi e abbondanti risultati che fecero vacillare e non poco il mondo accademico dell'ostetricia, la redazione del Corriere e lo spogliatoio tutto della Juve Stabia.
Con l'ausilio dei suoi generosi, inesausti e misteriosi massaggi il mio cranio di gelatina tornò ad assumere una forma consona a non far scappare nessuno appena si affacciava alla culla, per esempio.
A dire il vero, ancora oggi a toccarlo sembra le montagne russe di Disneland.
Ma da lontano e con i capelli che dissimulano, dato che ancora ce li ho e pure lunghi da intrecciare come uno pseudo rasta del cazzo qualunque, ha retto oltre i cinquanta con eccentrica dignità.
E anche l'effetto Masai lasciò, con calma e per piacere, il posto a un tono tra il bianco che ha preso d'acido e il rosa color bambino normale.
Tirarono tutti un bel respiro di sollievo.
Per primo mio nonno che dopo due sorelle e due figlie, all'avvento del maschio alfa, si precipitò al capezzale di mamma per abbracciare il prodigio e quando mi vide in quelle condizioni un attimo borderline non ci rimase proprio e anche questa è fatta, diciamo. E non lo nascose, spiegandomene il perchè poi e con la proletaria motivazione che si ribella efficace e senza abecedario all'annichilimento. Gli imprinting culturali che gli avevano incollato addosso avevano reso la mistificazione del maschio/erede un paradosso. Pesante a livello emozionale per lui e con l'inutile, intonsa e impegnativa aspettativa sociale che caratterizza i nostri limiti di ex cacciatori/raccoglitori alla quale, senza mai saperne il reale motivo, ci prostriamo come schiavi a prezzo stracciato al mercato delle vacche emozionali.
Ma sia ben chiaro che non l'ho mai giudicato per questo.
Chi sa dare un casato chiaro ai propri limiti è già oltre il paradosso e si frappone al paradigma.
Comunque le cose tornarono in salsa borghese rientrando nei protocolli sociali di quell'anonimo 1964 ed io potei iniziare trionfalmente e senza indugi la mia carriera di neonato: piangere ininterrottamente urlando come Iggy Pop strafatto giorno e notte, cagare come un leone ogni due ore spaccate, minare con la freddezza del sicario il corpo e la psiche della santa donna, e dulcis in fondo, far capire a mio padre che prima di farle le cazzate, sarebbe d'uopo pensarci bene e con metodo.
Al terzo mese ci fu il primo dramma familiare.

Ero sobrio e meditativo adagiato nel passeggino pronto per la passeggiata tutto adorno di trine e di trine pure io che sembravo il trono di spade che, ommannaggia!, a mia madre scivolò via il pargolo mezzo in una lieve ma infima discesa e, dopo un po' di zigzagate, si ribaltò ed io sperimentai spadaccino il gusto e il piacere della mia bocca di neonato infrangersi senza pietà e difese nell'adulto asfalto.
Piansi per tutto il girone d'andata del campionato di serie A, mi rinfacciò poi mio padre.
Ma alla fine due punti di sutura tolsero la paura ma non i sensi di colpa -che per quelli non basta manco la chemio- e quel brutto taglio si trasformò poi in una piccola stortura del mio carnoso labbro che più di una donna nei lustri ha apprezzato a scena aperta.
Ma il sentore che qualcosa non andava era già nell'aria. Anche se io, intento com'ero a prosciugare i seni di quella santa donna, lo sottovalutai peccando in un mix di leggerezza e inconsapevolezza che
avrei pagato poi in seguito, con calma.

Dopo qualche mese di nonschalance entrai, con l'ausilio sempre di mamma tanto amorevole e premurosa, nella fase dell'ingrasso coatto e gustosamente coercitivo che, per chiari motivi oggi ma oscuri ieri, era segno di benessere e prosperità che i miei non avevano ma mostrarla bastava oppure abbagliava, e comunque e in qualche modo, questo accontentava.
Ma riconosco oggi convinto, al di là delle disquisizioni onaniste sull'uso dei puerperi per ammansire i cazzi propri e poco più, che ad un anno avermi fatto assaggiare la salsiccia cruda e le tagliatelle con il sugo dell'Anna che era una roba che ci rimanevi sotto a forza, fu un errore pedagogico che non lasciò prigionieri nel campo della battaglia culinaria e mandò a gambe all'aria il mio svezzamento consapevole.
Intanto, appena mi metteva sotto il naso un omogenizzato (avendo oramai inquadrato bene l'homo sapiens di genere femminile che mi aveva concepito) attaccavo a piangere le cascate del Niagara in tempi olimpionici. Il che bloccava le operazioni in corso e apriva autostrade al piano B.
E funzionava alla grande.
Due rigatoni alla Carlona fino a un po' di tonno con le cipolline e l'aspro accattivante dei capperi lo raccattavo di sicuro e in abbondanza gastronomica.
Poi pagavo dazio con un paio d'ore di quiete e un pannolino riempito a modino.
Mi sembrava doveroso. Per poi -noblesse oblige- riattaccare a rompere i maroni con il copione di prima.

Le conseguenze di quelle azioni canavacciule si manifestarono comunque spietate e nel breve.
Diventai così grasso che ancora oggi se guardo quelle foto mi rifiuto di credere che quello ero io per davvero e mi vergogno come un ministro dei trasporti sull'Autosole. E non è certo un caso che al crono attuale, che veleggio oltre i cinquanta, provo un grosso imbarazzo per la gente grassa e ne percepisco il disagio fisico, umorale, emozionale, l'affresco affranto dietro a ricche risate, l'ingurgitare compulsivo, la fragilità mascherata da torri d'argilla, il voler essere tanto per il terrore di non essere nulla.
Non è bello da dire lo so. Ma questo sento. E non è per niente un bel sentire. Per dire.
Malgrado ciò, giusto per incrementare la mia pargola autostima tutti i familiari, gli amici e i conoscenti, iniziarono a chiamarmi Il Budda.
Ed io, imbronciato e pachiderma, accettavo tutto in cambio di commestibilità.
Mi chiamavano Budda per schernirmi con quel fare innocente che fa tanto cattolico integrato.
Senza malizia o forse più semplicemente con inconsapevole malizia. Ma io ad oggi, che mezzo Mondo l'ho girato e un poco l'ho capito, non sono mica per niente convinto che la prendevo sul ridere.
Pensate che ho letto in un libro lungo lungo pieno di paroloni e senza manco le figure, ma più accuratamente e semplificato su un settimanale di gossip – che io ritengo l'unica, vera apoteosica libertà di pensiero - che da zero a tre anni si forma la struttura emozionale, pressoché definitiva, della vita di un Sapiens medio.
Ci sono la dott.ssa Kitty Brazelton e il dott Benjamin Spock che lo affermano a chiare lettere.
Lo sostiene anche Fabio Volo e Il Volo. Anche se di quattro non se ne fa uno.
E pure Cazzola. Quando lo sedano con lo Xanax e torna ad essere.

Ma al di là di questa nemesi che trova aria e estuario soltanto tra la paraculaggine di Freud e la metrica di Al Bano, diventai così grasso che non stavo più dentro il box, che ai miei tempi erano di solito tondi, con la rete di protezione così e così e si ribaltavano a guardarli. Cioè, diciamo che ci entravo preciso ma più che un neonato che sgambetta e straparla con giochi e pupazzi sembravo un maialino infilato a forza lì dentro e credetemi, non era un bel vedere.
Fu così che il mio adorato nonno, falegname di cesello e cervello fino, mosso da compassione comunista e amor di sangue, ideò un recinto di legno da inserire al volo sulla tavola della nostra cucina. E lì c'entravo come un bimbo normale e anche i giochi. Così che la santa donna per un po' respirava.
La leggenda racconta che mi bighellonavo scoglionatissimo sibilando un Pappa ad intervalli regolari come le tasse, ma avevo riacquistato l'aura di un neonato standard.
Se poi ci mettiamo il carico da undici di mia madre che stava cedendo emozionalmente a causa di problemi di lavoro e a causa mia, tutto diventa chiaro come un aforisma venuto spontaneo e bene.
Se ci aggiungiamo calando poi un imbarazzato silenzio fischiettante su mio padre che, da fascio dentro come si è manifestato in più occasioni negli anni, trovò la soluzione ai suoi problemi andando in giro a fare il clandestino con spose annoiate e in cerca di emozioni giocandosi la reputazione paesana per sempre e marchiando per i posteri mia madre come una cornuta reale, possiamo tranquillamente affermare, amici vicini e lontani, che la mia situazione evoluzionistica si sviluppava imperterrita e decisa su uno spread da terzo mondo.
Quindi adesso provate ad immaginare un piccolo Sapiens che cresce ereditando imprinting e conformazioni imposte inconsapevolmente da Sapiens ai quali altri Sapiens hanno inconsapevolmente imposto, relegatelo in un recinto ad imbottirsi di cibo e noia, lasciate che intuisca anche soltanto a livello energetico la brutta temperatura familiare, e avrete il seguente assioma:
un bulimico compulsivo pieno di insicurezze e con degli scompensi affettivi di un serial killer.

Comunque, quasi a volersi rassicurare come una raccomandata con ricevuta di ritorno, la sfiga prima mi vide, poi mi sedusse, e invece di poi abbandonarmi, rimase lì in bella vista aggrappata al mio ego di vetro incandescente come un terzino si aggrappa alla tibia&perone di un bomber: con consapevole e, per quanto dovuta ma non necessaria, grezza cattiveria.
Essendo la tavola da cucina diventata anche il mio box decompressorio, il missed accident si trasformò nel breve in un accident al plutonio. Precisamente si manifestò su un piatto piano che mia madre dimenticò inavvertitamente sulla tavola con me recintato dentro. E su quel piatto c'erano adese due salsicce fresche che non avrebbero visto il sole di domani neanche se si alzavano lentamente.
La santa donna se ne accorse quando mi trovò collassato, con il budello delle medesime che mi ciondolava dal labbro, e con la sensazione di averla combinata grossa.
Fui portato con tanto di sirene addirittura all'ospedale della città vicina “Per un trapianto d'organi o peggio”, dicevano i più.
“E' stata una corsa contro il tempo per salvare una giovane vita appena sbocciata”, affermò qualcun altro. “La sfiga ci acchiappa, vuol dire che doveva essere”, aggiunsero un paio di gufi palesemente juventini.
Ma la retorica, che a volte ci piglia più dei miei adorati settimanali di pettegolezzi, racconta una storia leggermente diversa.
Mentre un'equipe di luminari mi visitava con sguardo competente e navigato straparlando paroloni accademici di cui io, ma anche i Miei tranquilli, non capivamo un acca, iniziai a riprendere conoscenza.
E la prima parola che mi uscì dalla bocca non fu: “Aiuto!”
E neanche: “Dove siamo?”
Men che meno: “Ma che cazzo ci faccio qui?!”
Esclamai semplicemente: “Pappa!”
E il pericolo, oltre a quelle scomode diagnostiche, rientrò imbronciato all'ovile.

Chiaramente mi fu prescritta una dieta.
Sopratutto quando scoprirono il mio menù giornaliero intonso fino a quel fatidico momento.
Da quel dì furono mezzo omogenizzato a pranzo e uno a cena.
La pastasciutta diventò un dogma che non riuscii a scalfire neanche piangendo sangue come le madonne fortunate. Iniziai a dimagrire e dopo un po' ripresi le sembianze di un bambino che si apprestava ad andare all'asilo a giocare con gli altri bambini.
A confrontarsi con gli altri bambini.
A misurarsi con gli altri bambini.
A crescere con gli altri bambini.
E con le suore.
Alle quali il primo fatidico giorno, dopo aver versato due damigiane di lacrime invano e indi costretto a rimanere in quella prigione imprigionato nonostante il mio netto diniego, dichiarai guerra totale e augurai tante di quelle brutte cose che la metà delle parolacce che conosco ad oggi le sviluppai nella semantica e nei toni di quella cruciale occasione.
Fa comunque scoop sapere che di lì a poco, con fare autodidatta diciamo, adeguai i miei barbari istinti ai perimetri di quell'istituzione religiosa dove nel breve mi sarei fatto un nome e una reputazione invidiabile.
Si sarebbe parlato di me oltre i confini del paesello.
Il mio nome sarebbe stato sussurrato tremando da più di una bambina.
Mio padre sarebbe rimasto a volte orgoglioso e a volte incazzoso con l'infante mentre mia madre si sarebbe immolata nel crogiolo dell'imbarazzo e patriottici sensi di colpa per i secoli a venire.
Ma ancora tutto questo non lo sapevo. E neanche pianificato. Giuro.

Nessun commento:

Posta un commento