capitolo uno
"Della nascita
e altre nefandezze"
Quando nacqui non ci fu
nessun squillo di tromba degno di pentagramma ma solo qualche nuvola
distratta che bivaccava anonima in un cielo di maggio appannato che
si ripiegava inutilmente orgoglioso su stesso come chi non ha più
niente da perdere. Una normale giornata del cazzo, sia detto.
E nacqui pure cuspide che è
una roba che mi ha messo di traverso alla Vita da subito, per
principio.
Fu una normale giornata del
cazzo per me e per voi però, perchè invece gli Dei da monti e da
riviera, il pattern sublimale dell'Universo Sconosciuto, l'élite dei
Rettiliani, le congiunzioni astrali da destra a manca, Shiva - che in
quei giorni c'aveva le sue cose e finiva che ci discutevi per un
niente - gli apostoli tutti meno uno che fu interrogato poi in merito
e con perizia, Manitù che era là sopra che scrollava la testa
perplesso e dicon pure l'arbitro cornuto, oltre che ad essere stati
avvisati e messi abbondantemente in stato di eccitazione dagli urli
strazianti di mia madre, eran tutti lì belli motivati per
apparecchiarmi un'entrata in questa nuova Esistenza che doveva essere
conio e summa di quello che mi sarebbe poi successo nei lustri a
venire.
Fu un successone.
“Un parto così di merda
non si vedeva dai tempi del Pleistocene”.
Ebbe a sentenziare poi
sottovoce la Tina, ostetrica da oltre un trentennio, che al mio
paesello negli anni '60 contava più di tutto il centro sinistra oggi
messo insieme. E per tirarmi fuori da lì quasi vivo faticò
in maniera desueta e boscaiola, si espose scomposta e a volte
sudereccia, che era una roba non contemplata nel prontuario del suo
ecclesiastico stile, e forse per la prima volta nella sua
democristiana vita e con somma gioia dei più, affabulante
bestemmiatrice.
Ma in qualche modo ce la
fece.
Anche se fu un dannato
lavoro sporco. Va detto.
Intanto, dato che il cordone
ombelicale mi si era arrotolato intorno alla gola fino quasi a
soffocarmi, ero diventato nero come un Masai di lungo corso. Poi,
dato che il medesimo impediva l'estrazione spontanea e naturale della
testata nucleare, si aiutò con un forcipe.
Tirò con metodo e sicumera
esperienza, testimoniano ancora oggi i presenti sopravvissuti, e
contro ogni previsione riuscì nel nobile intento di salvarmi.
Va da se che non solo ero
tutto nero, ma anche il mio neonato cranio di burro partecipò al
banchetto e si era allungato in maniera esacerbante.
Ho visto una sola foto di
straforo di quello scempio estetico e devo dire che ero davvero tanta
roba.
Modigliani avrebbe
sentenziato che sembravo un quadro di Picasso del periodo guarda
che l'hai appeso all'incontrario ridendosela divertito, anche se
fondamentalmente, senza scomodarvi con scaltri paragoni, che manco li
avete capiti fino in fondo, la mia testa sembrava un'enorme
pera.
Come da frutto e pure da
foto.
E, va da sé, brutta come il
peccato originale.
Piccola botta di culo volle
che la Tina, mossa da compassione e con la tigna che caratterizza le
azioni dei vincenti, mise in atto una tattica rurale e minimalista
che di lì a un mese partorì -senza doglie stavolta- ottimi e
abbondanti risultati che fecero vacillare e non poco il mondo
accademico dell'ostetricia, la redazione del Corriere e lo
spogliatoio tutto della Juve Stabia.
Con l'ausilio dei suoi
generosi, inesausti e misteriosi massaggi il mio cranio di gelatina
tornò ad assumere una forma consona a non far scappare nessuno
appena si affacciava alla culla, per esempio.
A dire il vero, ancora oggi
a toccarlo sembra le montagne russe di Disneland.
Ma da lontano e con i
capelli che dissimulano, dato che ancora ce li ho e pure lunghi da
intrecciare come uno pseudo rasta del cazzo qualunque, ha
retto oltre i cinquanta con eccentrica dignità.
E anche l'effetto Masai
lasciò, con calma e per piacere, il posto a un tono tra il bianco
che ha preso d'acido e il rosa color bambino normale.
Tirarono tutti un bel
respiro di sollievo.
Per primo mio nonno che dopo
due sorelle e due figlie, all'avvento del maschio alfa, si precipitò
al capezzale di mamma per abbracciare il prodigio e quando mi vide in
quelle condizioni un attimo borderline non ci rimase proprio e
anche questa è fatta, diciamo. E non lo nascose, spiegandomene
il perchè poi e con la proletaria motivazione che si ribella
efficace e senza abecedario all'annichilimento. Gli imprinting
culturali che gli avevano incollato addosso avevano reso la
mistificazione del maschio/erede un
paradosso. Pesante a livello emozionale per lui e con l'inutile,
intonsa e impegnativa aspettativa sociale che caratterizza i nostri
limiti di ex cacciatori/raccoglitori alla quale, senza mai saperne il
reale motivo, ci prostriamo come schiavi a prezzo stracciato al
mercato delle vacche emozionali.
Ma sia ben chiaro che non
l'ho mai giudicato per questo.
Chi sa dare un casato chiaro
ai propri limiti è già oltre il paradosso e si frappone al
paradigma.
Comunque le cose tornarono
in salsa borghese rientrando nei protocolli sociali di quell'anonimo
1964 ed io potei iniziare trionfalmente e senza indugi la mia
carriera di neonato: piangere ininterrottamente urlando come Iggy Pop
strafatto giorno e notte, cagare come un leone ogni due ore spaccate,
minare con la freddezza del sicario il corpo e la psiche della santa
donna, e dulcis in fondo, far capire a mio padre che prima di farle
le cazzate, sarebbe d'uopo pensarci bene e con metodo.
Al terzo mese ci fu il primo
dramma familiare.
Ero sobrio e meditativo
adagiato nel passeggino pronto per la passeggiata tutto adorno di
trine e di trine pure io che sembravo il trono di spade che,
ommannaggia!, a mia madre scivolò via il pargolo mezzo in una lieve
ma infima discesa e, dopo un po' di zigzagate, si ribaltò ed io
sperimentai spadaccino il gusto e il piacere della mia bocca di
neonato infrangersi senza pietà e difese nell'adulto asfalto.
Piansi per tutto il girone
d'andata del campionato di serie A, mi rinfacciò poi mio padre.
Ma alla fine due punti di
sutura tolsero la paura ma non i sensi di colpa -che per quelli non
basta manco la chemio- e quel brutto taglio si trasformò poi in una
piccola stortura del mio carnoso labbro che più di una donna nei
lustri ha apprezzato a scena aperta.
Ma il sentore che qualcosa
non andava era già nell'aria. Anche se io, intento com'ero a
prosciugare i seni di quella santa donna, lo sottovalutai peccando in
un mix di leggerezza e inconsapevolezza che
avrei pagato poi in seguito,
con calma.
Dopo qualche mese di
nonschalance entrai, con
l'ausilio sempre di mamma tanto amorevole e premurosa, nella fase
dell'ingrasso coatto e gustosamente coercitivo che, per chiari
motivi oggi ma oscuri ieri, era segno di benessere e
prosperità che i miei non avevano ma mostrarla bastava oppure
abbagliava, e comunque e in qualche modo, questo accontentava.
Ma riconosco oggi convinto,
al di là delle disquisizioni onaniste sull'uso dei puerperi per
ammansire i cazzi propri e poco più, che ad un anno avermi fatto
assaggiare la salsiccia cruda e le tagliatelle con il sugo dell'Anna
che era una roba che ci rimanevi sotto a forza, fu un errore
pedagogico che non lasciò prigionieri nel campo della battaglia
culinaria e mandò a gambe all'aria il mio svezzamento consapevole.
Intanto, appena mi metteva
sotto il naso un omogenizzato (avendo oramai inquadrato bene l'homo
sapiens di genere femminile che mi aveva concepito) attaccavo a
piangere le cascate del Niagara in tempi olimpionici. Il che bloccava
le operazioni in corso e apriva autostrade al piano B.
E funzionava alla grande.
Due rigatoni alla Carlona
fino a un po' di tonno con le cipolline e l'aspro accattivante dei
capperi lo raccattavo di sicuro e in abbondanza gastronomica.
Poi pagavo dazio con un paio
d'ore di quiete e un pannolino riempito a modino.
Mi sembrava doveroso. Per
poi -noblesse oblige- riattaccare a rompere i maroni con il copione
di prima.
Le conseguenze di quelle
azioni canavacciule si manifestarono comunque spietate e nel breve.
Diventai così grasso che
ancora oggi se guardo quelle foto mi rifiuto di credere che quello
ero io per davvero e mi vergogno come un ministro dei trasporti
sull'Autosole. E non è certo un caso che al crono attuale, che
veleggio oltre i cinquanta, provo un grosso imbarazzo per la gente
grassa e ne percepisco il disagio fisico, umorale, emozionale,
l'affresco affranto dietro a ricche risate, l'ingurgitare compulsivo,
la fragilità mascherata da torri d'argilla, il voler essere tanto
per il terrore di non essere nulla.
Non è bello da dire lo so.
Ma questo sento. E non è per niente un bel sentire. Per dire.
Malgrado ciò, giusto per
incrementare la mia pargola autostima tutti i familiari, gli amici e
i conoscenti, iniziarono a chiamarmi Il Budda.
Ed io, imbronciato e
pachiderma, accettavo tutto in cambio di commestibilità.
Mi chiamavano Budda per
schernirmi con quel fare innocente che fa tanto cattolico
integrato.
Senza malizia o forse più
semplicemente con inconsapevole malizia. Ma io ad oggi, che mezzo
Mondo l'ho girato e un poco l'ho capito, non sono mica per niente
convinto che la prendevo sul ridere.
Pensate che ho letto in un
libro lungo lungo pieno di paroloni e senza manco le figure, ma più
accuratamente e semplificato su un settimanale di gossip – che io
ritengo l'unica, vera apoteosica libertà di pensiero - che da zero a
tre anni si forma la struttura emozionale, pressoché definitiva,
della vita di un Sapiens medio.
Ci sono la dott.ssa Kitty
Brazelton e il dott Benjamin Spock che lo affermano a chiare lettere.
Lo sostiene anche Fabio Volo
e Il Volo. Anche se di quattro non se ne fa uno.
E pure Cazzola. Quando lo
sedano con lo Xanax e torna ad essere.
Ma al di là di questa
nemesi che trova aria e estuario soltanto tra la paraculaggine di
Freud e la metrica di Al Bano, diventai così grasso che non stavo
più dentro il box, che ai miei tempi erano di solito tondi, con la
rete di protezione così e così e si ribaltavano a guardarli. Cioè,
diciamo che ci entravo preciso ma più che un neonato che sgambetta e
straparla con giochi e pupazzi sembravo un maialino infilato a forza
lì dentro e credetemi, non era un bel vedere.
Fu così che il mio adorato
nonno, falegname di cesello e cervello fino, mosso da compassione
comunista e amor di sangue, ideò un recinto di legno da inserire al
volo sulla tavola della nostra cucina. E lì c'entravo come un bimbo
normale e anche i giochi. Così che la santa donna per un po'
respirava.
La leggenda racconta che mi
bighellonavo scoglionatissimo sibilando un Pappa ad intervalli
regolari come le tasse, ma avevo riacquistato l'aura di un neonato
standard.
Se poi ci mettiamo il carico
da undici di mia madre che stava cedendo emozionalmente a causa di
problemi di lavoro e a causa mia, tutto diventa chiaro come un
aforisma venuto spontaneo e bene.
Se ci aggiungiamo calando
poi un imbarazzato silenzio fischiettante su mio padre che, da fascio
dentro come si è manifestato in più occasioni negli anni, trovò la
soluzione ai suoi problemi andando in giro a fare il clandestino con
spose annoiate e in cerca di emozioni giocandosi la reputazione
paesana per sempre e marchiando per i posteri mia madre come una
cornuta reale, possiamo tranquillamente affermare, amici vicini e
lontani, che la mia situazione evoluzionistica si sviluppava
imperterrita e decisa su uno spread da terzo mondo.
Quindi adesso provate ad immaginare un piccolo Sapiens che cresce
ereditando imprinting e conformazioni imposte inconsapevolmente da
Sapiens ai quali altri Sapiens hanno inconsapevolmente imposto,
relegatelo in un recinto ad imbottirsi di cibo e noia, lasciate che
intuisca anche soltanto a livello energetico la brutta temperatura
familiare, e avrete il seguente assioma:
un bulimico compulsivo pieno
di insicurezze e con degli scompensi affettivi di un serial killer.
Comunque, quasi a volersi
rassicurare come una raccomandata con ricevuta di ritorno, la sfiga
prima mi vide, poi mi sedusse, e invece di poi abbandonarmi,
rimase lì in bella vista aggrappata al mio ego di vetro
incandescente come un terzino si aggrappa alla tibia&perone di un
bomber: con consapevole e, per quanto dovuta ma non necessaria,
grezza cattiveria.
Essendo la tavola da cucina
diventata anche il mio box decompressorio, il missed accident si
trasformò nel breve in un accident al plutonio. Precisamente si
manifestò su un piatto piano che mia madre dimenticò
inavvertitamente sulla tavola con me recintato dentro. E su quel
piatto c'erano adese due salsicce fresche che non avrebbero visto il
sole di domani neanche se si alzavano lentamente.
La santa donna se ne accorse
quando mi trovò collassato, con il budello delle medesime che mi
ciondolava dal labbro, e con la sensazione di averla combinata
grossa.
Fui portato con tanto di
sirene addirittura all'ospedale della città vicina “Per un
trapianto d'organi o peggio”, dicevano i più.
“E' stata una corsa contro
il tempo per salvare una giovane vita appena sbocciata”, affermò
qualcun altro. “La sfiga ci acchiappa, vuol dire che doveva
essere”, aggiunsero un paio di gufi palesemente juventini.
Ma la retorica, che a volte
ci piglia più dei miei adorati settimanali di pettegolezzi, racconta
una storia leggermente diversa.
Mentre un'equipe di luminari
mi visitava con sguardo competente e navigato straparlando paroloni
accademici di cui io, ma anche i Miei tranquilli, non capivamo un
acca, iniziai a riprendere conoscenza.
E la prima parola che mi
uscì dalla bocca non fu: “Aiuto!”
E neanche: “Dove siamo?”
Men che meno: “Ma che
cazzo ci faccio qui?!”
Esclamai semplicemente:
“Pappa!”
E il pericolo, oltre a
quelle scomode diagnostiche, rientrò imbronciato all'ovile.
Chiaramente mi fu prescritta
una dieta.
Sopratutto quando scoprirono
il mio menù giornaliero intonso fino a quel fatidico momento.
Da quel dì furono mezzo
omogenizzato a pranzo e uno a cena.
La pastasciutta diventò un
dogma che non riuscii a scalfire neanche piangendo sangue come le
madonne fortunate. Iniziai a dimagrire e dopo un po' ripresi le
sembianze di un bambino che si apprestava ad andare all'asilo a
giocare con gli altri bambini.
A confrontarsi con gli altri
bambini.
A misurarsi con gli altri
bambini.
A crescere con gli altri
bambini.
E con le suore.
Alle quali il primo fatidico
giorno, dopo aver versato due damigiane di lacrime invano e indi
costretto a rimanere in quella prigione imprigionato nonostante il
mio netto diniego, dichiarai guerra totale e augurai tante di quelle
brutte cose che la metà delle parolacce che conosco ad oggi le
sviluppai nella semantica e nei toni di quella cruciale occasione.
Fa comunque scoop sapere che di lì a poco, con fare autodidatta
diciamo, adeguai i miei barbari istinti ai perimetri di
quell'istituzione religiosa dove nel breve mi sarei fatto un nome e
una reputazione invidiabile.
Si sarebbe parlato di me
oltre i confini del paesello.
Il mio nome sarebbe stato
sussurrato tremando da più di una bambina.
Mio padre sarebbe rimasto a
volte orgoglioso e a volte incazzoso con l'infante mentre mia madre
si sarebbe immolata nel crogiolo dell'imbarazzo e patriottici sensi
di colpa per i secoli a venire.
Ma ancora tutto questo non
lo sapevo. E neanche pianificato. Giuro.
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